18 dic 2014

L'analisi di Domenico Cacopardo sulla nuova performance di Benigni


Dopo il guitto che si mette in politica e fonda un partito, il 5 Stelle, ci doveva toccare il comico (Benigni) che, dopo essersi inventato dantista e costituzionalista, s’è dato alla teologia. Sempre onorando, come ogni giullare che si rispetti, il potere reale di riferimento ignaro che esso, purtroppo per lui, non esiste più.

Intendiamoci, non per colpa sua, ma di questa dirigenza Rai, sempre ripiegata su se stessa, incapace di rottamare le cariatidi che imperversano sui teleschermi e sui microfoni, e di innovare l’unico laboratorio (pubblico) che dovrebbe rispecchiare la società e, per essa e con essa, produrre cultura. 

Ci tocca rimpiangere i tempi di Ettore Bernabei, di Fabiano Fabiani e di Biagio Agnes, tutti democristianoni, tutti capaci di inventarsi ogni anno qualcosa di nuovo e di interessante, senza cadere in preclusioni ideologiche.

Oggi, invece, c’è una specie di paralisi mentale che impedisce ai capi attuali di vedere che così non va e che, anche in Rai, occorre cambiare verso e uomini. Che il collaudato ricovero di «quadretti» di partito, di figli e nipoti di exinfluenti personaggi della Prima e della Seconda Repubblica deve aprirsi alle professionalità emergenti, in fuga verso l’estero, per offrire loro una opportunità italiana.

In questo contesto nascono le «performances» di Roberto Benigni. 

Diventato personaggio «cult» per «La vita è bella», nella quale osa (colpo di genio) trattare in forma lieve la grande tragedia della «shoah», il comico (un altro «one shoot people», capace di sparare solo un solo colpo) che fu Johnny Stecchino diventa una specie di strapagata ancora di salvezza per gente a corto di idee.

La Divina Commedia, la Costituzione e il Decalogo sono stati l’occasione per esibizioni farcite della peggiore retorica, prive di alcun reale fondamento culturale e intrappolate da un buonismo d’accatto, alla Veltroni.

Senza ricordare l’affermazione «la nostra Costituzione è la più bella del mondo», la cui falsità era ben nota e già da tempo a tutti gli italiani, oltre che agli esperti, soffermiamoci brevemente su questo Decalogo. 

La cifra specifica del «recital» di Benigni è la mediocrità. Il ridondante esame di ogni comandamento non riesce a esprimere null’altro che luoghi comuni, e tra essi solo quelli capaci di vellicare il gusto di un pubblico di bocca buona. Non poteva mancare il riferimento alla donna, con l’attribuzione alla «costola» di un significato che mai ha avuto né nella patristica né nella teologia. La «costola» della Bibbia è la conferma di una visione maschilista, così radicata e diffusa da non consentire le escursioni verbali del nostro comico. E la «felicità» è un concetto tutt’altro che biblico, visto che la nascita dell’uomo è segnata dal peccato e dalla cacciata dall’Eden. E l’«amore», un sentimento cristiano difficilmente rintracciabile nel decalogo, nel quale occhieggia il Dio che obbliga Abramo a sacrificare Isacco.

C’è da dire che, probabilmente, Benigni, viziato da un premio Oscar, venerato come Garibaldi dal pubblico di mezza-sinistra che continua a immaginare gerarchie politiche, morali e sociali ormai in soffitta, ha perso strada facendo ogni umiltà e ispirazione (quelle vere non quelle fittizie, spesso richiamate nelle sue interminabili filippiche) necessarie per cercare e trovare la «logica» che lega il pensiero, per approfondire i temi di cui intende occuparsi e per evitare di parlarsi addosso come capita agli anziani, categoria alla quale non è anagraficamente iscritto, avendo appena 62 anni.

Se, alla fine, Matteo Renzi batterà un colpo rinnovando come si deve la Rai, potremmo rivedere Benigni sul piccolo schermo non nelle deludenti vesti del tuttologo moralista, ma in quelle più proprie e divertenti del comico professionista.
Domenico Cacopardo


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