28 mar 2015

Pubblica amministrazione, politica e burocrazia

L'interessante analisi di Domenico Cacopardo circa le problematiche inerenti la Pubblica Amministrazione..colgono nel segno e corrispondono esattamente a ciò di cui il mio Forum si è spesso occupato. 
Non v'è dubbio che debba essere compito della politica controllare ed intervenire per dettare nuove iniziative in proposito. Il concetto di innovazione non sembra affatto appartenere a questo governo e la sua opera di riforme più che paradossale appare sprovveduta e totalmente priva di idee.
Per quanto riguarda la PubblicaAmministrazione e la conseguente componente burocratica ormai radicalizzata.. si potrebbe comprendere il tutto nel contenuto di una metafora già adoprata dal sottoscritto: "Paragonando il sistema in cui viviamo e nel quale ci rapportiamo, ad un campo sul quale andrebbero coltivati i semi (nuove regole e principi costituzionali di un nuovo sistema politico più utile). Il suo frutto dovrebbe essere quello della “democrazia funzionale”. Ma se il campo è malato, arato male, senza un’attenta concimazione, il seme non crescerà mai bene ed il raccolto sarà inevitabilmente il frutto di tutto ciò: un raccolto guasto (ovvero una democrazia non definita), al quale si aggiungeranno i parassiti ( la burocrazia) che divoreranno questo raccolto rendendo il campo una coltre ancora più desolata."
Questa metafora individua nel campo un "sistema" che andrebbe ricomposto in modo da potervi ripiantare i nuovi semi per l’attesa e la crescita di un buon raccolto e per evitare l’arrivo di qualsiasi altro parassita. Ma chi può farlo se non un contadino?...Come ugualmente ..chi può intervenire sul sistema istituzionale e della pubblica Amministrazione.. se non la politica? Oggi il parassita della “burocrazia” regna sovrano in un Paese che soffre in concorrenza, crescita e funzionalità, la burocrazia sembra persino esser fomentata da chi gestisce quello stesso potere politico: Essa torna utile poiché, il disbrigo della stessa, rende ancora più forza a chi, il potere, lo gestisce.
Se, a questa, aggiungiamo l’assoluto e dilagante cinico pragmatismo delle rigide ed immutevoli istituzioni, allora il Paese e la sua società civile continueranno a perdurare in una realtà simile a quella di un basso medioevo. Bisognerebbe spingersi verso un nuovo rinascimento, riarando il suddetto campo per l’attesa del buon raccolto ed il rifiorire dei valori più corretti utili alla società.

Questa è l'unica vera ragione per la quale non si può che condannare politicamente chiunque tra ministri, sottosegretari o alti dirigenti, i quali, se pur passivamente e senza colpe dirette... assistono ancora inermi e succubi al deterioramento di tale sistema amministrativo.
vincenzo cacopardo




Scrive Domenico Cacopardo
Le sensazione è che le parole, critiche o positive, siano gettate al vento. Nel mondo che, per ora, ha vinto le prime tappe di questo paradossale «Giro d’Italia» non contano i contenuti, le norme, ma soltanto gli annunci: riforma di questo, riforma di quello, purché sia spendibile la parola riforma, tutto va bene anche se, in concreto, non riforma nulla. A meno che non si tratti di questioni che mettono in discussione la primazia di Renzi sul suo partito, sul governo, sul Parlamento, sul Paese. Perciò, una sballata trasformazione del Senato diventa la linea del Piave insieme alla nuova legge elettorale, che consegnerà la Camera dei deputati nelle mani del «premier» e dei suoi più fedeli seguaci, anche quelli che non supererebbero i test «QI» (quoziente di intelligenza) in uso nelle forza armate per il reclutamento dei militari.
Anzi, meno sono autonomi di testa e di carattere meglio si adattano al sistema cui aspira Matteo Renzi, più sono congeniali alla sua «Weltanschauung» (visione del mondo). Lo so, è eccessivo ritenere che il «premier» abbia elaborato una «Weltanschauung», tuttavia, istintivamente, è portatore di un’idea della politica che possiede una sua coerenza interna.
L’occasione per riflettere viene suggerita da una delle tante riforme “finte” all’esame del Parlamento: la pubblica Amministrazione e, in particolare, la dirigenza pubblica.
Il «mood» è vecchio e, ogni volta che si affronta il problema, torna in modo peggiorativo. In questi giorni, l’iniziativa viene attribuita a un senatore Pd exdemocristiano, colto, anche lui, sulla strada di Roma da una conversione renziana. Si tratta di Giorgio Pagliari che si intesta la decrepita idea di garantire la cosiddetta terzietà dei manager pubblici e la loro indipendenza dall’autorità politica.
Evidentemente, questo signore, insieme al premio Nobel politico Marianna Madia, non legge i giornali né –ma questo è normale- nulla di ciò che nel mondo s’è scritto sul ruolo della burocrazia e sui suoi rapporti con la politica.
Sarebbe bastato prestare un po’ d’attenzione alla vicenda Lupi-Incalza per constatare ciò che è ormai a conoscenza di tutti: dopo Tangentopoli, la titolarità dei rapporti tra lo Stato e le imprese, tra lo Stato e i cittadini, è passata dalla politica alla burocrazia, cui, di fatto, competono le relazioni proprie e quelle improprie, cioè corruttive.
La terzietà dei manager, prima che una sciocchezza conclamata, è un’illusione: chiunque occupi un ruolo di potere burocratico lo gestisce nel modo più lucroso possibile per sé e per le proprie relazioni politiche.
La strada quindi è diversa: rendere trasparenti i rapporti tra le due aree dello Stato, in modo che alla responsabilità politica siano effettivamente attribuibili le decisioni e i comportamenti della burocrazia. Non a caso, negli Stati Uniti vige uno «spoil system» generale e, in Francia, dove la burocrazia ha un prestigio che noi sognamo, la politica ha il dovere di governare e di controllare le azioni di coloro cui sono attribuite funzioni operative.
Il nuovo dirigente pubblico disegnato dalla Madia e da Pagliari è vecchio e irrecuperabile a un processo di rilancio del Paese.
Il manager pubblico considera i «file» di cui deve occuparsi come un coltivatore diretto pensa al suo campo: vanno coltivati, gestiti, utilizzati e tenuti in caldo per tutto il tempo possibile, giacché «L’arretrato è potere» e la legge «si applica, ma per gli amici si interpreta».
La verità è che la burocrazia, questa burocrazia, e la dirigenza, questa dirigenza, sono perdute e debbono essere abbandonate al loro destino, magari con un prepensionamento.
Madia e Pagliari non sanno, né possono sapere che quando un’azienda deve cambiare, attivando una trasformazione di processi e di prodotti, accantona il personale sin lì occupato nei sistemi e nei prodotti in via di abbandono, e attiva «task forces» (nelle quali può essere inserito, previa adeguata formazione, qualcuno dei ‘vecchi’ purché abbia ancora l’età per imparare) intorno alle quali si costruisce la nuova azienda. Ed è questo il caso di un’Amministrazione pubblica, nazionale, regionale, comunale nemica dell’innovazione e incapace di fornire al cittadino un servizio adeguato al terzo millennio.
Lo so. Questo è pretendere troppo. Ma rimane la constatazione di trovarci di fronte a un’ennesima riforma finta che cambierà qualcosa per lasciare le questioni sostanziali com’erano nel 1948, nel 1980 e ieri.
domenico cacopardo






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