22 mag 2015

un appunto sulla analisi di Domenico Cacopardo (sentenza del Corte Costituzionale)

L'analisi di Domenico Cacopardo è corretta.. tuttavia, per dirla in tono pragmatico come il consigliere spesso usa fare...una sentenza è stata emessa e, nel bene o nel male, bisogna prenderne atto.

L'art 81 sembra chiaro, ma tutti sappiamo come assai meno chiaro è apparso il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214, con il quale il governo Monti aveva disposto il congelamento del meccanismo di perequazione automatica delle pensioni, in relazione all’andamento dell’inflazione. Perchè mai si è andato a toccare un sacro diritto di una fascia di lavoratori che avevano con fatica lavorato per anni e la cui pensione non poteva certo dirsi d'oro? Perchè mai di fronte a lla spropositata dicotomia di certi vitalizi ancora vigenti? Purtroppo, senza un preciso concetto di equità(tanto propagandisticamente declamato dallo stesso governo Monti) saremo sempre costretti a fare i conti con le evidenti difformità.

Non sarebbe il caso di riaprire una polemica su certi diritti acquisiti, ma risulta anomalo che di fronte a tutto ciò.. venga oggi distribuito un bonus di 80 euro mensili ad una fascia di lavoratori dipendenti ..quando vi sono una serie di pensionati che ne avrebbero più bisogno. Quelle che più impressionano sono la lunga serie di anomalie generate da un sistema politico che pare non trovare mai le strade più eque nella ricerca delle soluzioni.

Se Domenico non può avere torto su certi articoli della Costituzione che offrono maggior chiarezza in proposito, non può di certo non far caso alle sperequazioni continue che tendono costantemente a penalizzare i più deboli. In questo contesto dovrebbe differenziarsi una più logica ed equilibrata funzione della politica...e non attraverso il costante criterio di normative che sembrano quasi studiate per generare assurde disuguaglianze!

La forza di certi valori finisce sempre col prevalere sulla prepotenza di certe anomalie!
vincenzo cacopardo


L’art. 81 della Costituzione italiana, come modificato con legge 20 aprile 2012, n. 1, stabilisce: «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.»
C’è da chiedersi come si colloca la Corte costituzionale rispetto al principio riportato.
Andiamo con ordine.
La sentenza 10 marzo 2015, n. 70, della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214, con il quale il mai compianto governo Monti aveva disposto il congelamento del meccanismo di perequazione automatica delle pensioni, in relazione all’andamento dell’inflazione.
Vista la natura «finale» del giudizio della Corte costituzionale, è ben legittimo esercitare, nelle forme garbate che si pretendono dalle persone investite di potere giudicante, il diritto di critica.
Prima di entrare nel merito di questa sorprendente sentenza, assunta (secondo attendibili indiscrezioni) con il voto determinante del presidente Alessandro Criscuolo (Napoli 1937), non si può non rilevare lo sciacallismo delle opposizioni esibitesi nella richiesta di un’applicazione integrale della sentenza, con la conseguente uscita aggiuntiva di circa 18 miliardi dalle casse dello Stato. Una richiesta, in questa fase di delicata ricostruzione di credibilità finanziaria, devastante e autodistruttiva.
Un problema dello stesso genere, a dire il vero, se lo sarebbero dovuti porre i giudici della Corte costituzionale prima di adottare una sentenza che, potenzialmente, avrebbe scassato il bilancio del loro Paese, i cui interessi complessivi non possono risiedere in una visione formale e, a parere di chi scrive, discutibile sotto il profilo logico e della ragionevolezza. Non a caso, abbiamo ricordato all’inizio l’art. 81 della Costituzione che impone un vincolo cui tutti debbono uniformarsi, compresa la Corte costituzionale che, in realtà, con la sentenza in questione, non prende in considerazione la rottura del vincolo di bilancio e di quello, preesistente, di copertura finanziaria.
Con le sue decisioni, infatti, la Corte assume il rango di legislatore, invero del tutto immune da un giudizio terzo, dell’elettorato o del Parlamento.
Prendiamo la questione sotto il profilo della logica giuridica, non lontana dal buonsenso e dalla logica comune, in modo che i lettori, nostri giudici iniziali e finali, possano farsi un’opinione non viziata da pregiudizi. Preciso che chi scrive, come molti componenti della Corte costituzionale, era teorico beneficiario della sentenza di cui discutiamo.
Veniamo al dunque. La norma caducata è il comma 25 dell’art. 24 del decreto-legge: «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici … è riconosciuta esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a due volte il trattamento minimo Inps …»
La Corte ha così ragionato: «… la perequazione automatica … è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. … si presta … a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost. … la tecnica della perequazione si impone … sulle scelte discrezionali del legislatore … (che) … deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. … (e) … consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici ... la disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento … il diritto a una prestazione previdenziale adeguata … risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.)»
Gli stralci della sentenza ci conducono sul sentiero dell’inaccettabilità dei principi evocati: l’art. 36 (il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa) esplicita un principio che non è assoluto ma che va storicizzato e, quindi, non può conferire ad alcun giudice il diritto di stabilire l’astratta congruità del compenso, slegata dall’equilibrio produttivo, economico e civile. L’art. 38 (i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di … vecchiaia …) ha anch’esso contenuti da contestualizzare, giacché nel sistema ormai adottato (il contributivo) i mezzi sono erogati in ragione di quanto versato durante il periodo lavorativo.
In definitiva, sembra ragionevole ritenere che la lettura della Corte costituzionale difetti, appunto, di logicità e di ragionevolezza proprio in ragione della mancata storicizzazione all’attualità. Anche per l’evidente sottovalutazione della situazione economico-finanziaria e del valore invalicabile (per motivi interni ed internazionali invalicabili) dell’art. 81 della Costituzione.
Ps. La decisione del governo di erogare un acconto (un errore grave chiamarlo «bonus») è venata di buonismo preelettorale, ma, comunque, corretta. Dare di più nuocerebbe proprio a quei pensionati che «vantano» il credito sancito dalla Corte.
Domenico Cacopardo



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