10 giu 2015

il "verso" non mutato del Paese

i profusi selfie di un premier vanitoso
di vincenzo cacopardo

Si sbagliano tutti coloro i quali pensano ancora che con la sola forza di un determinato pragmatismo e con la prosopopea sempre dimostrata dal sindaco d'Italia.. si potrebbe raggiungere un utile risultato.

La questione non è proprio quella che: “in fondo...a differenza di altri.. ci ha provato!”..come molti hanno continuato a ripetere! L'argomento politico si è sempre presentato delicato e sarebbe stato necessario affrontarlo con molta più umiltà e maggiore deferenza nei riguardi dei cittadini. Più sensibilità nei riguardi dei principi stessi della democrazia..meno forzature contrapposte...maggiore delicatezza nei riguardi dei principi di egualità ed equità..meno appariscenza, insomma...meno selfie ed abbracci e più impegno verso l'innovazione e le idee.

Non si trattava solo di rimanere estraneo al rito stantio dei partiti del passato, ma di operare con meno fretta e semplificazione, poiché la logica del solo pragmatismo non potrà mai essere vincente, ma solo integrativa alle idee: Nel caso di Renzi..quelle poche idee sembrano aver fatto acqua. E' più di un anno che il mio Forum ..anche attraverso il collaborativo scambio con il pensiero e le analisi di Domenico Cacopardo, ha messo in serio dubbio l'operato fin troppo arrogante e presuntuoso percorso dal giovane premier.

Dov'è si è mai messa in evidenza quella sensibilità che doveva guidare la sua figura con maggior modestia e con più impegno da vero statista nel dialogo con gli altri Partiti? Tutto ciò che Renzi ha fatto è stato per lo più suggerito dalle forze politiche ed economiche europee.. non dimostrando alcun vero rispetto per la cultura, il pensiero ed il mondo imprenditoriale del nostro Paese. ..Si è adattato ad un sistema globale senza il minimo sforzo di fornire un contributo di cambiamento che avrebbe potuto rendere allo stesso sistema un barlume di innovazione (la semplificazione non è innovazione)...Eppure siamo il Paese delle idee..siamo definiti i più grandi creatori... dovremmo dettare concetti qualitativi eccellenti.. più che presunzione e pragmatismo.

Adesso che siamo alla prova dei fatti saltano in evidenza le crepature di un processo di falso cambiamento da lui voluto ed imposto anche per mancanza di altre figure politiche più capaci. Più che i molti a sperarci ..sono stati in troppi costretti a fare affidamento su una figura che si è mossa con gran capacità di comunicazione.. e con una dose abbondante di “paraculismo” che ha finito anch'essa con lo stancare. Strano che Domenico non abbia intuito prima quanto avrebbe potuto nuocere alla politica una personalità talmente ambiziosa quanto poco rispettosa di un processo si cambiamento che avrebbe dovuto sostenersi con maggior sensibilità: un finale che si intravede.. ma che ancora deve vedere un "verso" nel suo epilogo.

Non è esponendosi con machiavellico pensiero che oggi si possono affrontare le enormi questioni riguardanti la politica sociale del Paese, né con la retorica sterile della rottamazione, ma forse con maggior platonica visione verso le congetture, le idee e le analisi... Non sempre può esservi un fine che giustifica i mezzi! Oggi la politica tende a muoversi di frequente e con prepotenza, in questa comune e semplificativa logica, mortificandosi nell‘uso dei mezzi più disperati ed assurdi e Renzi ne rappresenta l'emblema.
Vincenzo cacopardo



scrive Domenico Cacopardo su Italia Oggi

Molti ci avevano sperato: il politico giovane, innovatore, estraneo al rito stantio dei partiti -e del suo, il Pd, in particolare-, portatore di una visione pragmatica che avrebbe riavvicinato l’Italia alle nazioni più avanzate, era la persona che poteva, effettivamente, cambiare verso al nostro Paese.
Anche la cinica spregiudicatezza mostrata in varie circostanze, a partire da «Stai tranquillom Enrico!», sembrava militare a favore di questo giovanotto, ex-scout, proveniente dal vivaio delle sagrestie.
Certo, sbagliava i riferimenti, per esempio La Pira, tutto il contrario di quello che serve ora e qui, o Berlinguer o Moro, ma gli si perdonava l’ignoranza della storia e dei fondamentali come la manifestazione di un rinnovamento «tout-court», slegato dal passato e, perciò, più libero nell’approccio alla contemporaneità.
Un sintomo s’era subito manifestato, però, con la demagogica distribuzione di 80 euro ad alcune categorie di indigenti (non i più indigenti, per il vero): una scelta inutile, per l’esiguità del beneficio, e dannosa per il peso sulla finanza pubblica. Già, nonostante il galantuomo Padoan, troppo galantuomo all’evidenza, la strada scelta dal primo ministro archiviava una politica economica sparagnina e si dirigeva verso l’aumento del deficit (e quindi del debito). Nei limiti del 3% concessoci naturalmente, ma sull’osservanza reale degli stessi, molti dubbi albergano nella testa degli esperti.
Altri sintomi si sono manifestati in corso d’opera: il dilettantismo internazionale, con un semestre europeo che, a dispetto delle promesse mirabolanti, non poteva essere più deludente, il dilettantismo governativo, con ministri inidonei a svolgere anche l’incarico di amministratore di condominio, con «comis» scelti nel giardino di casa, come la comandante dei vigili urbani di Firenze, e il «city manager» di Reggio Emilia.
Però il piglio era deciso e, su alcune questioni cruciali, come le riforme istituzionali (monocameralismo sostanziale, riforma del titolo V, legge elettorale), il «jobs act» o la scuola, intransigente, tanto da accettare lo scontro con un pezzo del suo medesimo partito.
Le cose andavano meno bene, anzi male, sul fronte della pubblica Amministrazione con una finta riforma, e persino sulle misure di rilancio, un pasticcio di idee con scarse possibilità di attuazione.
Sul fronte morale (nel quale, la nomina a dirigente nella discussa azienda paterna sembrava insignificante pagliuzza) Matteo Renzi era altrettanto deciso: dimissionati il sottosegretario Gentile (Ncd) per pressioni sul giornale L’ora della Calabria, il ministro De Gerolamo (Ncd), tirata in ballo da intercettazioni tra estranei, non indagata, e il ministro Lupi (Ncd), per rapporti non trasparenti con l’imprenditore Perotti, non indagato.
Insomma, la moglie di Cesare non deve essere nemmeno sfiorata dal sospetto.
Però, nel suo partito, il rinnovamento si arrestava: le candidature alle presidenze regionale erano riportabili al passato e ai legami con l’antica nomenklatura, anche se tutti i soggetti (come del resto il bersaniano presidente dell’Emilia-Romagna) erano renziani di accatto o di rinforzo.
Ma sulla questione morale, l’intransigenza si fermava di fronte al Pd, per una scelta «À la carte».
In Sicilia, nessuna reazione al caso Genovese, anche se il deputato arrestato era il fondamentale cardine del renzismo isolano.
Poi Roma, con Mafia capitale. Si nomina un commissario al partito, Matteo Orfini e si decide di difendere il sindaco della capitale, Marino, quello della Panda in divieto di sosta. Sino ai nostri giorni, quando Mafia capitale si allarga coinvolgendo uomini del nuovo corso (provenienti dal vecchio) eletti con Marino anche nella lista da lui medesimo creata. Matteo Renzi, nel fine settimana, va al festival di Repubblica, a Genova, e ribadisce: pulizia nel partito e a Roma, ma Marino non si tocca.
Una evidente sottovalutazione di quanto sta accadendo non solo nella procura della Repubblica di Roma, ma in giro per l’Italia, dove la pubblica opinione che l’ha premiato alle europee è indignata dalla sua insensibilità sul fatto più eclatante della storia del malaffare di questi anni.
A parte la geometria variabile (la gente dell’Ncd trattata in modo ben diverso da quella del Pd), risulta stupefacente il crollo improvviso del «feeling» con una parte cospicua di italiani e la crisi della sua straordinaria capacità comunicazionale.
Già, in modo freudiano, mentre si annuncia il sostegno «usque ad finem» di Marino, si dispongono gli stanziamenti per il Giubileo, somme ingenti che saranno gestite dalla medesima amministrazione scossa nelle fondamenta dallo scandalo.
Intanto, le minoranze del Pd sono diventate carsiche: non si vedono, non si sentono, non si ascoltano. Non sarà che, richiamandosi al vecchio che resiste, esse hanno da temere dall’avanzata della legalità a Roma? Perché Matteo Renzi non approfitta della situazione e regola i conti con loro? Perché si trincera nella difesa dell’indifendibile, lui come tanti predecessori, legati a un equilibrio partitico di cui è parte il malaffare dalle Alpi al Lilibeo? Perché non chiarisce l’entità del contributo versato dall’inquisito Buzzi alla cena nella quale partecipava anche lui?
Ognuno ha le sue risposte a questi vitali quesiti. Quello che è certo è che «hic et nunc», Renzi ha perso il carisma del rinnovatore (e del moralizzatore, se mai l’ha avuto).
Da oggi avremo di fronte un ennesimo governo boccheggiante, incapace di tracciare il solco insuperabile tra legalità e illegalità che il Paese pretende come premessa indispensabile della sua ripresa morale, politica ed economica. Un ennesimo governo di mezze figure, con un «premier» troppo rapidamente trasformatosi nella caricatura di se stesso.
Domenico Cacopardo


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