29 lug 2015

nuovo articolo di Domenico Cacopardo su Marino

Oggi, si capirà qualcosa di più, rispetto a ciò che s’è capito su Roma e sul suo sindaco Ignazio Marino. Un professore universitario che, per ragioni mai esplicitate, ha abbandonato l’ambito ruolo di capo di dipartimento in un centro ospedaliero americano (Philadelphia) per abbracciare la politica e il Pd.
Ma già è emerso abbastanza, soprattutto nell’ultimo week-end.
Infatti, sembra chiaro agli addetti lavori che lo scontro in corso non è tra Renzi e Marino, ma tra Renzi e Orfini, il giovanissimo presidente del Pd, commissario del partito romano.
Quando è esploso il caso Roma, Orfini, capo di una delle frazioni exDS, alleato di Renzi, è stato incaricato di mettere a posto il partito della capitale, investito, come il comune, dalla tempesta denominata «Mafia capitale», consistita in una raffica di arresti, di avvisi di garanzia e di sospensioni dagli incarichi pubblici.
La «ratio» e i limiti della scelta di Orfini come risanatore del partito, risiedeva nel suo essere espressione diretta e (relativamente) nuova della realtà capitolina, dopo esperienze di base compiute nella storica sezione Prati e un’elezione in Parlamento ottenuta proprio a Roma.
I limiti della scelta erano costituiti proprio dalla stretta correlazione tra il commissario e il mondo politico che doveva «normalizzare».
Sostengono molti che Orfini s’è mosso bene, coinvolgendo nell’analisi dei vizi del sistema delle sezioni di Fabrizio Barca, figlio di un importante dirigente comunista, estraneo però al partito e al suo tran-tran romano.
La vicenda ha, però, preso una brutta svolta quando Renzi s’è azzardato a dichiarare –più o meno- che Ignazio Marino era giunto al capolinea.
Orfini ha reagito immediatamente e ha cominciato a spendersi in favore del discusso sindaco, allo scopo dichiarato ed evidente di sostenere l’amministrazione in essere rinviando il più possibile un appuntamento elettorale che per il Pd potrebbe significare una clamorosa sconfitta.
Probabilmente, il primo ministro non s’è subito reso conto che si stava innescando un confronto nel quale la testa in palio non era, appunto, quella di Marino, ma la sua, dato che se le sue imprudenti dichiarazioni non avessero avuto effetto, nell’ircocervo democratico, un po’ exPci, un po’ exDc, la sua autorità e, peggio, la sua autorevolezza avrebbero subito un drastico tracollo. Tale, in definitiva, di riaggregare, intorno a Orfini, tutte le minoranze interne e, soprattutto, la palude degli incerti, accorsi in soccorso del vincitore Renzi, ma pronti a mollarlo se un altro uomo forte, con serie possibilità di «vincere» il partito fosse emerso.
È quindi vitale, per comprendere cosa accadrà in politica nei prossimi sei mesi, osservare quale sarà l’evoluzione del caso Roma e vedere se, col sostegno di Orfini, Marino sopravviverà o altrimenti crollerà, lasciando il campo ai renziani di tutte le ore.
Sullo sfondo, ma non tanto, c’è la figura di Franco Gabrielli, prefetto di Roma e autorità cui competeva tirare le somme di un’inchiesta amministrativa attivata subito dopo il manifestarsi dello scandalo.
Con la cautela del funzionario consumato (e del politico capace di sceverare gli interessi in campo), Gabrielli ha trasmesso al ministro degli interni una relazione che non poteva non contrariare il suo sponsor Renzi.
Se, infatti, quest’ultimo si attendeva un rapporto esplosivo tale da giustificare il commissariamento del comune, si sbagliava. La relazione Gabrielli, pur evidenziando le magagne capitoline, sosteneva che Marino era al di fuori del malgoverno e della corruzione. Del che nessuno, in verità, dubitava.
Ciò che la città imputa al suo sindaco è invece un atteggiamento ondivago, incapace di scegliere cosa fare e con quale urgenza, come disporre e realizzare un’ampia purga della dirigenza, insomma quel cambio di passo che era lecito attendersi dopo la devastante esperienza Alemanno.
Perciò, in questa partita che si gioca su più tavoli contemporanei, occorrerà che l’inchiesta e il rapporto Gabrielli trovino la conclusione politica amministrativa che sembra profilarsi: censure aspre che non investono il sindaco e rendono impossibile il commissiariamento.
Insomma, Gabrielli ha mostrato al presidente del consiglio che la realtà non può essere forzata per aiutarlo a realizzare i propri desideri politici e che la pubblica funzione attribuitagli sarà esercitata «ratio veritatis» non secondo la sua utilità.

Almeno, a oggi, queste sembrano le coordinate con cui si può valutare lo stato dell’arte. Coordinate non felici per la politica (azzardata) di Renzi.
In questo gioco, allo stesso tempo raffinato e cinico, chi ci rimette è Roma. Sono i romani. Alle prese con un’amministrazione inesistente, talmente legata al passato (a dispetto delle affermazioni della relazione Gabrielli) da suggerire all’assessore al bilancio Silvia Scorzese di motivare le proprie dimissioni con (tra l’altro) il permanere dell’andazzo di affidare direttamente, senza gara, forniture e lavori. Infatti, secondo la dimissionaria, gli uffici romani lasciano tranquillamente scadere i termini per avviare le procedure concorsuali, in modo da essere legittimati a disporre la continuazione dei vecchi contratti dei vecchi appaltatori.
C’è un particolare inquietante: se è vero (e non c’è ragione di dubitare) ciò che sostiene la dottoressa Scorzese, avremmo una evidente smentita dell’affermazione che, con Marino, sarebbe cessato il vecchio andazzo.
Insomma, un pasticcio inestricabile, nel quale le furbizie prevalgono sulle esigenze della città.

Domenico Cacopardo

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