PUBBLICHIAMO QUESTO RICHIAMO AD UN TRAGICO PASSATO...ESPOSTO
IN MODO ELOQUENTE DA DOMENICO CACOPARDO..AFFINCHE’, COLORO CHE L’HANNO VISSUTO,
POSSANO MEGLIO SPIEGARLO AI NOSTRI GIOVANI.
Voi che vivete sicuri/Nelle vostre tiepide case,/Voi
che trovate tornando a sera/Il cibo caldo e visi amici:/Considerate se questo è
un uomo/Che lavora nel fango/Che non conosce pace/Che lotta per un pezzo di
pane/Che muore per un sì o per un no./Considerate se questa è una donna,/Senza
capelli e senza nome/Senza più forza di ricordare/Vuoti gli occhi e freddo il
grembo/Come una rana d'inverno./Meditate che questo è stato:/Vi comando queste
parole./ Scolpitele nel vostro cuore/Stando in casa andando per via,/Coricandovi
alzandovi;/Ripetetele ai vostri figli.
Con questi versi, Primo Levi (1919–1987),partigiano, chimico e
scrittore arricchisce il proprio romanzo “Se questo è un uomo”, dedicato alle
atrocità vissute durante il fascismo. Dal 1943 prigioniero dei nazifascisti e, nel
febbraio del 1944, deportato nel campo
di concentramento di Auschwitz in quanto ebreo. Scampato al lager e tornato in Italia, ha
documentato le non immaginabili sofferenze sue e dei suoi
compagni di prigionia a futura memoria.
Le
generazioni che si sono succedute dal 1945, non hanno avuto conoscenza di ciò
ch’erano stati il fascismo e il nazismo. Di quanto la dignità umana fosse
calpestata ogni minuto di ogni giorno, di quanto dolore fosse dispensato a chi
era contrario ai regimi o, semplicemente, ebreo, zingaro od omosessuale. A un
livello poco meno infimo erano collocati gli slavi, usati come schiavi nelle
officine e nelle fattorie della grande Germania.
L’Italia
seguì l’esempio del regime tedesco e adottò, nel 1938, leggi razziali scritte sul criminale esempio d’Oltralpe e
aggravate durante il periodo della Repubblica sociale.
La loro applicazione
venne, in qualche caso, mitigata dalla popolazione, incapace delle crudeltà
ch’esse comportavano.
Questo
atteggiamento, però, non fu così generale e unanime come ci si sarebbe
aspettato. Molti, per interesse, approfittarono della situazione, impadronendosi
di aziende di proprietà ebraica. La casa editrice Treves, una delle più
importanti della nazione, venne rilevata da Aldo Garzanti che ne assorbì il
catalogo e le diede il proprio nome.
Le confische di beni ebraici si susseguirono
a ritmo serrato. Nulla venne risparmiato. E, nel ’43, iniziarono i
rastrellamenti.
La più ampia
comunità ebraica è quella di Roma: qui il destino si compie il 16 ottobre 1943.
Raccontiamo brevemente la storia: qualche giorno prima, il 26 settembre, due
esponenti dell'ebraismo sono convocati dal comandante della polizia tedesca, il
maggiore delle SS Herbert Kappler, che chiede la consegna entro 36 ore di
cinquanta chili d'oro, in cambio della vita di 200 ebrei romani.
L'oro
viene trovato, i tedeschi sembrano placati, gli ebrei si tranquillizzano. Tra
il 29 settembre e il 13 ottobre i tedeschi penetrano negli uffici della comunità
e asportano documenti e libri antichi.
Poi, all'alba
del 16 ottobre, circondano il Ghetto di Roma e irrompono nelle case strappando
uomini, donne, anziani e bambini dalle loro abitazioni, caricandoli sui camion
e portandoli a palazzo Braschi e in una caserma di via della Lungara. Dopo
qualche giorno gli oltre mille ebrei catturati nella razzia vengono gettati su
treni e avviati a Fossoli e da qui ad Auschwitz, dove, quasi tutti, vengonocondotti,
appena scesi dai treni piombati, alle camere a gas e uccisi con lo Ziklon C.
Alla fine, a Roma gli ebrei deportati saranno 2091, su una comunità molto più
ampia, dispersasi nelle campagne, rifugiatasi nelle case di amici ‘gentili’
(cioè non ebrei), nascostasi in istituti religiosi, compreso il Vaticano. Qui,
era l’Oratorio di San Pietro, in Largo del Sant’Uffizio (ora via Paolo VI), la
porta d’ingresso nella salvezza. L’Oratorio era un luogo di raduno di giovani,
ma soprattutto di assistenza agli indigenti: colonne di persone in attesa di un
pasto si assiepavano sul marciapiedi sul quale si affaccia l’imponente portone
della sacra temuta congregazione. Per ordine personale di papa Pio XII, alcuni
prelati erano pronti ad accogliere i perseguitati razziali e politici che
riuscivano a raggiungere quel luogo, superando la vigilanza delle polizie
politiche che imperversavano nella capitale. Venivano in parte sistemati nel
Vaticano medesimo o trasferiti, con mezzi dello Stato pontificio, in strutture
religiose di Roma e del Lazio.
Circa
9000 furono gli ebrei italiani deportati in Germania. Di essi quasi 8000 non
fecero ritorno.
Questa
la macabra contabilità italiana d’una tragedia che attraversò l’Europa, dalla
Francia alla Russia provocando tra i 5 e i 6 milioni di vittime. A esse vanno
aggiunti i caduti in operazioni belliche (almeno 25 milioni), i prigionieri di
guerra deceduti nei campi di concentramento, le vittime civili delle truppe
tedesche e italiane nei Balcani, in Grecia e in Russia.
Perché
la tragedia non venga dimenticata e perché sia comunicata alle generazioni
post-belliche, è stata istituita la Giornata della memoria, che si celebra il
27 gennaio di ogni anno, nell’anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Oświęcim
da parte delle truppe sovietiche.
In tutto
il mondo, questa memoria è tenuta viva, non tanto per se stessa, quanto perché,
attraverso la conoscenza, si riscaldino le coscienze e si impedisca, così, il
ripetersi del razzismo e delle sue feroci, inumane conseguenze.
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