Il giudice dell’udienza preliminare di Venezia, Massimo Vicinanza, ha respinto la proposta di patteggiamento che era stata definita per Giorgio Orsoni, tra procura e difesa: quattro mesi e 15.000 euro di ammenda. Il ruolo del sindaco-avvocato nella vicenda torna nel dibattimento, quando ci sarà: un elemento che contribuirà a fare chiarezza nella geografia delle responsabilità e delle disinvolture. Sembra che il cosiddetto “Scandalo Mose” attraversi una fase di stanca, dopo che il presidente del Consorzio Venezia Nuova, Mazzacurati, e il direttore generale Baita hanno raccontato le loro verità con abbondanza di nomi e di particolari.
Quella che manca, ancora oggi, a circa un mese di distanza dalle prime notizie, è l’azione del governo e, in parte, quella delle medesima autorità giudiziaria.
Le reazioni di Renzi sono state immediate e dirette, ma, come negli usi della (sua) casa, più di forma che di sostanza. Il premier ha affermato che “I ladri debbono andare in galera” e, nelle settimane successive, dopo un ennesimo tira e molla, ha definito i poteri del commissario anticorruzione Raffaele Cantone.
Insomma, un’impostazione di diritto penale, quando, invece, la terapia è tutta amministrativa, nel senso che occorre intervenire con provvedimenti urgenti per fermare la dissipazione di denaro pubblico e per consentire una utile continuazione e completamento dei lavori.
Dal canto suo Lupi, ministro delle infrastrutture, si è segnalato per i silenzi più che per le parole spese. Invero, ha annunciato la due diligence (da queste colonne invocata) e affidato al viceministro Nencini l’incarico di predisporre la modifica della normativa sugli appalti. Di due diligence, però, si è persa ogni traccia, e le nuove norme nascono nel segreto delle stanza ministeriali senza affrontare il nodo centrale: l’applicazione, in Italia, del sistema in vigore nel mondo. Tender (cioè gare) al massimo ribasso con garanzia integrale su tutto il valore dell’opera. Per questa scelta moralizzatrice non c’è necessità di un nuovo codice degli appalti, basta una direttiva ministeriale.
Ovviamente, i ritardi nell’affidamento di un incarico per la verifica del delta tra quanto incassato dal Consorzio Venezia Nuova e i costi reali dell’opera, lascia nell’ombra la quantità di provvista illecita conseguita dal Consorzio stesso, a beneficio delle imprese partecipanti, e dei loro dirigenti. E lascia alle medesime imprese, con gli stessi dirigenti, salvo le posizioni attribuite ai soggetti incriminati, il compito di gestire questa fase delicata e di continuare i lavori.
Certo, a prima vista sembra che il ministero delle infrastrutture e la procura della Repubblica di Venezia appartengano a due realtà diverse. Non si hanno notizie di coordinamenti rivolti a salvaguardare alcuni valori irrinunciabili, oltre la punizione dei responsabili e correi: il possibile recupero di quanto sperperato, la continuazione dell’opera nell’interesse di Venezia e dei valori in essa identificati dall’Unesco.
Sembra, inoltre, che coloro che si occupano della questione non abbiano nemmeno sfogliato la normativa in vigore. In particolare il decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 e successive modificazioni: qui le fattispecie e i rimedi sono chiaramente indicati e permettono l’immediato commissariamento delle aziende responsabili di corruzioni e altri illeciti. Un contatto tra ministro e procura potrebbe risolvere lo stallo attuale.
Peraltro, la normativa della 231, in vigore da oltre 10 anni, va segnalata non al premier Renzi e al suo staff (incapaci di usare gli strumenti che già ci sono e funzionano in un ansia di ignorante nuovismo), ma al medesimo Cantone, commissario anticorruzione, che deve assumersi la responsabilità di promuovere il commissariamento delle aziende implicate sia a Venezia che a Milano.
Una necessità per fare fronte all’emergenza “tempo” evitando che esso eserciti tutto il suo potente ricatto sulle autorità politiche nazionali e regionali di fronte alla prospettiva di non aprire l’Expo nella data prevista e di rinviare a data da destinarsi l’ultimazione del Mose.
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