C’è
un’aria mefitica per le vie di Roma, non per il persistente
inquinamento da traffico automobilistico, ma soprattutto per le
esalazioni provenienti dall’inquinamento morale che l’attraversa.
Quando
pensiamo che questa città sarà la sede dell’anno santo
straordinario indetto da papa Francesco e vorrebbe essere il luogo di
una prossima Olimpiade («già si arrotano in denti per la possibile
pantagruelica ‘magnata’»), un moto di indignazione nasce
spontaneo, per lo spettacolo ora in scena, per gli attori che lo
animano e per la «futura programmazione».
La
questione «mafia capitale», infatti, con decine di arresti in vari
campi politici sembra ridursi nelle accese polemiche di queste ore al
dilemma «Marino sì» «Marino no». Certo, il sindaco ce ne mette
di suo, quando sostiene che, in qualche modo, i successi
investigativi del procuratore della Repubblica Pignatone, magistrato
di lungo corso, proveniente da Palermo e Reggio Calabria, con
esperienze specifiche in materia di criminalità organizzata,
dipendono da lui medesimo, il primario che ha abbandonato il
primariato americano per dedicarsi alla politica italiana, in un
primo tempo, e poi romana.
La verità
è che Roma deve essere risanata nel profondo, partendo dall’ultimo
ufficio della polizia municipale nella più sperduta borgata e
arrivando al fatale colle del Campidoglio. E che per farlo è
necessaria la sospensione delle attività politico-amministrative e
l’attribuzione delle stesse a un ente commissariale che per un
periodo di almeno cinque anni provveda, mantenendo in piedi le
attività di quotidiano interesse dei cittadini, a una profonda
epurazione del tessuto burocratico cittadino.
Qualcosa di
simile a ciò che fece il regno d’Italia inventando un
Commissariato straordinario per Napoli che, con mutamenti
nominalistici, governò il capoluogo campano sino al dopoguerra.
Appare
ottuso e inconsapevole un atteggiamento volto a mantenere immutati
gli assetti istituzionali del comune di Roma e della regione Lazio.
Essi, soprattutto il secondo, sono strettamente legati al passato del
Pd e alla nomenklatura che ne era responsabile, a partire da Bersani,
al quale era anche molto legato il noto presidente della provincia di
Milano, Penati.
La «tabula
rasa» non è un cieco sparare nel mucchio. La «tabula rasa» è una
misura di salute pubblica analoga a quelle che si è costretti ad
adottare in presenza di focolai di grave infezione.
L’agitazione
di Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario al partito romano,
non coglie la necessità di chiudere in modo esemplare un capitolo,
trasferendolo dal suo tavolo alla più vicina discarica. Finché non
si renderà conto di questa irrinviabile necessità, lui e il suo
partito continueranno a sprofondare nella melma nella quale un gruppo
dirigente affarista e spregiudicato l’ha gettato.
Il medesimo
discorso andrebbe rivolto anche ai responsabili di Forza Italia, di
Fratelli d’Italia e del gruppo popolare che si riferisce a Tabacci:
ma questi cosiddetti partiti sono ectoplasmi senza il fiato
occorrente per compiere l’autocritica immediata che ci si aspetta
da loro.
Diverso è
il caso del Pd che di comune e regione ha la responsabilità attuale
e al quale appartengono molti imputati eletti non nel passato remoto
ma di recente nelle tornate che hanno portato al potere Marino e
Zingaretti.
C’è
qualcuno che dubiti che, per esempio, l’attuale prefetto di Roma,
Franco Gabrielli farebbe meglio di qualsiasi sindaco in una
contingenza come l’attuale? Del resto, sul tema del giubileo
Gabrielli s’è mosso più e meglio di quanto non abbia fatto Marino
o chiunque altro in città.
Prima
che l’Italia si ritrovi con la faccia al muro nella temperie
dell’anno santo, Matteo Renzi cerchi nel proprio «sentiment» ciò
che serve: azzeri tutto. Commissari comune e regione e dia agli
italiani la sensazione di una reale, drastica volontà di pulizia.
Altrimenti il suo futuro politico nel governo e nel partito subirà
l’appannamento in cui sperano la minoranza del Pd e gli avversari
del nuovo corso.
Domenico
Cacopardo
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