È inutile
illudersi: la Sicilia è irredimibile e il suo destino è legato in
modo indissolubile all’ipocrisia, alle mezze verità, alle mezze
bugie di un contesto sociale assuefatto e complice della criminalità
specifica dell’isola che si chiama mafia.
Lo
riscontriamo in ogni viaggio nell’«amata terra» che, ogni volta,
diventa odiata, per le palesi falsità di amministratori, politici,
professionisti e gente comune, tutti felici nel bozzolo di
un’applicazione della legge personale e opzionale.
Ma
l’aspetto più inquietante di questa società è che non sai mai
con chi hai a che fare: se, veramente, è quello che dice di essere,
un cittadino esemplare dedito alla legalità, o un doppio agente del
crimine, capace di ascoltarti e di utilizzare un semplice colloquio
per le sue personali mene.
Non
sostengo che, in Sicilia, sono tutti mafiosi. Sostengo che la società
ha metabolizzato il fenomeno, ha imparato a conviverci e a
utilizzarlo per i propri interessi utilitaristici, si tratti della
fornitura in nero o del piccolo abuso, non rilevato dal comune in
quanto con l’atteggiamento indifferente e complice l’interessato
s’è conquistato la sua piccola fetta di impunità.
A parte, ci
sono coloro che della lotta alla criminalità hanno fatto una
missione di vita. Una scelta coraggiosa che, spesso, comporta un
eroismo, incompreso: oggetto di critiche e di isolamento.
Sulla
piazza, quindi, esistono coloro che non chiudono gli occhi, che sono
fedeli al motto (tanto, troppo in disuso) «tra legalità e
illegalità non sono possibile compromessi», che testimoniano
l’inquinamento degli enti locali, dei partiti, di alcune
organizzazioni sociali, che non accettano che anche le piccole
comunità ospitino trafficanti e «pusher» di droga, che non
subiscono le quotidiane intimidazioni. E ci sono magistrati che, come
gli «Arditi» della Prima guerra mondiale, rischiano quotidianamente
la vita (o la perdono come Chinnici, Falcone e Borsellino e tanti
altri) sapendo di rischiarla per un principio per un dovere per una
Nazione che ritengono, giustamente, nonostante tutto, Patria.
In giro, in
quegli stessi luoghi nei quali la mafia governa per interposta
persona o direttamente, di norma non si commemorano i caduti di
mafia. Ma quando gli amministratori sono più raffinati
nell’ipocrisia, lo fanno, invitando a partecipare i cittadini di
rispetto, quelli con i quali una persona normale non vorrebbe
incontrarsi in un qualsiasi bar.
Ecco, in
questo ambiente complesso e tragico, viene in luce (l’Espresso) una
telefonata tra il dottor Matteo Tutino e il presidente della regione
Rosario Crocetta, nel corso della quale il sanitario affermava:
(Lucia Borsellino) «va fermata, fatta fuori. Come suo padre.»
Più che
uno scandalo, l’affermazione di una complicità, di un’intesa
intollerabile, in Sicilia come altrove.
Non abbiamo
ragione di ritenere che la rivelazione dell’Espresso non sia
fondata, nonostante una smentita che non esaurisce le possibilità
che il documento, segretato, sia effettivamente esistente.
Come
sempre, molti si stanno spendendo a favore di Crocetta,
nell’illusione di una antimafiosità che la telefonata smentirebbe
in modo clamoroso.
Ma
l’onorevole Giuseppe Lumia, Pd, regista della giunta siciliana,
merita una risposta: non ha alcun rilievo stabilire se Crocetta abbia
ascoltato o meno Tutino. È grave che Tutino si sia permesso di
esprimere l’auspicio stesso: trattandosi di un professionista
affermato, risulta evidente che se ha detto (Lucia Borsellino)
«va fermata, fatta fuori. Come suo padre.», lo poteva dire per il
livello di confidenza e di amicizia con Crocetta.
«Et de hoc
satis» (basta): non può esserci dubbio né perdono per un
personaggio del genere. Salvo esigenze di cordate e di solidarietà
inaccettabili e inquietanti.
Domenico
Cacopardo
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