19 lug 2015

interessante articolo di Domenico Cacopardo sulla Sicilia

È inutile illudersi: la Sicilia è irredimibile e il suo destino è legato in modo indissolubile all’ipocrisia, alle mezze verità, alle mezze bugie di un contesto sociale assuefatto e complice della criminalità specifica dell’isola che si chiama mafia.
Lo riscontriamo in ogni viaggio nell’«amata terra» che, ogni volta, diventa odiata, per le palesi falsità di amministratori, politici, professionisti e gente comune, tutti felici nel bozzolo di un’applicazione della legge personale e opzionale.
Ma l’aspetto più inquietante di questa società è che non sai mai con chi hai a che fare: se, veramente, è quello che dice di essere, un cittadino esemplare dedito alla legalità, o un doppio agente del crimine, capace di ascoltarti e di utilizzare un semplice colloquio per le sue personali mene.
Non sostengo che, in Sicilia, sono tutti mafiosi. Sostengo che la società ha metabolizzato il fenomeno, ha imparato a conviverci e a utilizzarlo per i propri interessi utilitaristici, si tratti della fornitura in nero o del piccolo abuso, non rilevato dal comune in quanto con l’atteggiamento indifferente e complice l’interessato s’è conquistato la sua piccola fetta di impunità.
A parte, ci sono coloro che della lotta alla criminalità hanno fatto una missione di vita. Una scelta coraggiosa che, spesso, comporta un eroismo, incompreso: oggetto di critiche e di isolamento.
Sulla piazza, quindi, esistono coloro che non chiudono gli occhi, che sono fedeli al motto (tanto, troppo in disuso) «tra legalità e illegalità non sono possibile compromessi», che testimoniano l’inquinamento degli enti locali, dei partiti, di alcune organizzazioni sociali, che non accettano che anche le piccole comunità ospitino trafficanti e «pusher» di droga, che non subiscono le quotidiane intimidazioni. E ci sono magistrati che, come gli «Arditi» della Prima guerra mondiale, rischiano quotidianamente la vita (o la perdono come Chinnici, Falcone e Borsellino e tanti altri) sapendo di rischiarla per un principio per un dovere per una Nazione che ritengono, giustamente, nonostante tutto, Patria.
In giro, in quegli stessi luoghi nei quali la mafia governa per interposta persona o direttamente, di norma non si commemorano i caduti di mafia. Ma quando gli amministratori sono più raffinati nell’ipocrisia, lo fanno, invitando a partecipare i cittadini di rispetto, quelli con i quali una persona normale non vorrebbe incontrarsi in un qualsiasi bar.
Ecco, in questo ambiente complesso e tragico, viene in luce (l’Espresso) una telefonata tra il dottor Matteo Tutino e il presidente della regione Rosario Crocetta, nel corso della quale il sanitario affermava: (Lucia Borsellino) «va fermata, fatta fuori. Come suo padre.»
Più che uno scandalo, l’affermazione di una complicità, di un’intesa intollerabile, in Sicilia come altrove.
Non abbiamo ragione di ritenere che la rivelazione dell’Espresso non sia fondata, nonostante una smentita che non esaurisce le possibilità che il documento, segretato, sia effettivamente esistente.

Come sempre, molti si stanno spendendo a favore di Crocetta, nell’illusione di una antimafiosità che la telefonata smentirebbe in modo clamoroso.

Ma l’onorevole Giuseppe Lumia, Pd, regista della giunta siciliana, merita una risposta: non ha alcun rilievo stabilire se Crocetta abbia ascoltato o meno Tutino. È grave che Tutino si sia permesso di esprimere l’auspicio stesso: trattandosi di un professionista affermato, risulta evidente che se ha detto (Lucia Borsellino) «va fermata, fatta fuori. Come suo padre.», lo poteva dire per il livello di confidenza e di amicizia con Crocetta.
«Et de hoc satis» (basta): non può esserci dubbio né perdono per un personaggio del genere. Salvo esigenze di cordate e di solidarietà inaccettabili e inquietanti.

Domenico Cacopardo

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