IL GIORNO DELL’ADDIO
Infine,
è arrivato il D-Day, il giorno dell’addio di Silvio Berlusconi al seggio
senatoriale, a suo tempo ritenuto più sicuro ai fini giudiziari di quello della
Camera dei deputati.
Nonostante
ogni sforzo, ogni grido, ogni attacco al presidente della Repubblica, alla
magistratura, al Pd, oggi il Senato voterà a scrutinio palese (una brutta
deroga al regolamento e ai principi costituzionali, voluta dal Pd nel timore di
franchi tiratori o di ‘operazioni’ del M5S) la decadenza del leader del
centro-destra.
Una
decisione, ovviamente, politica. Sarebbe sciocco trincerarsi sugli aspetti
tecnici. Come sempre, sulla base della propria autodichia, il Parlamento è
giudice dei propri componenti e può liberamente decidere –checché se ne dica-
di applicare o meno le decisioni dell’autorità giudiziaria. In questo caso, con
molta ipocrisia, si vorrebbe dare l’idea di una decisione ‘obbligata’ da una
sentenza e non, com’è nella realtà, di una decisione sovrana.
C’è,
però, da rimanere sorpresi e ammirati dalla forza belluina che Berlusconi sta
mostrando in questi giorni. Rifiutando di riconoscere la realtà, di ragionare
con freddezza, di contare tutte le proprie 77 primavere, schiera quel che resta
del suo esercito, si espone in concioni appassionate in qualunque sede
disponibile per proclamare il ‘colpo di Stato’ e l’ineguagliabile persecuzione
cui è sottoposto.
Si
tratta del tentativo di mobilitare gli italiani moderati che non amano la
sinistra e il centro-sinistra. E di lanciare, con il passaggio all’opposizione,
un allettante amo ai nemici del governo Letta. Lo scopo è quello di provocare
lo scioglimento delle camere e le elezioni a primavera in modo da azzerare
Alfano e suoi e riprendersi, dall’esterno, la scossa leadership del
centro-destra.
I
suoi possibili alleati si annidano nel Pd e il loro capo naturale è Matteo
Renzi.
Mentre
quello di Berlusconi è un discorso tattico, quello di Renzi è strategico:
elezioni a primavera significherebbero monetizzare le difficoltà del cavaliere
e impedire il successo del suo rivale, Enrico Letta, impantanato per ora e per
qualche mese ancora in una difficile sopravvivenza day by day. Infatti,
arrivando indenne alla primavera del 2015, il premier potrebbe raccogliere i
frutti della ripresa economica che, comunque, si dispiegherà l’anno prossimo, e
aggregare una forza riformista capace di sottrarre all’«ultima raffica di
Arcore» il residuo consenso degli italiani moderati. Letta conquisterebbe così
una leadership indiscutibile: e con lui, in ogni caso, si
dovrebbero fare i conti.
Tutto
ciò ha un senso preciso: il Paese sta uscendo dalla Seconda repubblica per
avventurarsi nella terza e i contendenti sono proprio Letta e Renzi, la
saggezza di uno spessore politico raffinato contro l’inconsistenza culturale di
un’osannata proposta mediatica. Un’antinomia, questa, che potrà essere
l’innesco per la dissoluzione dell’innaturale ircocervo Pd.
Il paradosso, però,
è che entrambi, Letta e Renzi, provengono dalla medesima area politica e
insistono su un elettorato abbastanza omogeneo che finiranno per contendersi.
Gli exPci sembrano fuori gioco: probabilmente è la vendetta della Storia.
Nel
presupposto, ammesso e non concesso che Napolitano, il leninista soft, sciolga
il Parlamento e indica le elezioni.
Del
che, è lecito dubitare.
malgrado le tattiche e le strategie, giustamente poste in rilievo e con attenzione da Domenico Cacopardo, una cosa è certa: Questo governo non potrà mai cadere se alle porte vi è il semestre europeo che lo attende ed un Europa risoluta che, in tal senso, ha posto un evidente divieto.
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