IL DECRETO DEL DISFARE di Paolo Speciale
E di colpo una mattina ci accorgemmo che
il governo Letta, in ossequio ai tempi che viviamo, era precario.
Forse per la giovane età del Presidente
del Consiglio, considerato sin dall'inizio la piccola creatura di papà Giorgio,
che ha sinora resistito eroicamente ad ogni attacco strumentale su un
protezionismo verso l'esecutivo francamente non più celato o celabile. O forse
per le intemperanze di un altro giovane, che da Firenze scalpita per entrare a
Palazzo Chigi. O forse ancora per il mancato “exploit” europeo che ha reso
prioritaria l'azione di indirizzo politico-economico rivolta ai sultani.
Certo è che l'insediamento di un governo
autorevole è stato sinora impedito dalla inadeguata modalità di esercizio della
sovranità popolare e da un bipolarismo forzato quanto esterofobo.
Tale e quale è rimasto l'improprio
ricorso alla decretazione d'urgenza, come tale e quale è rimasta la farraginosa
e fatale procedura parlamentare. Procedura destinata a condizionare la già
discutibile pratica bontà di provvedimenti dei quali si è preferito elaborare
con attenzione la denominazione, piuttosto che l'efficacia reale su fenomeni
finanziari che, in un assurdo contesto che ci vede passivi e preoccupati
osservatori, tuttavia condizionano pesantemente la nostra vita ogni giorno.
Al decreto del fare si unisce in questi
giorni un para-decreto del disfare, che prospetta scenari costituiti da
sconvolgenti alleanze e ritorni di fiamma causa di un definitivo decadimento
dottrinale -ideologico delle cosiddette forze centriste moderate, già ferite a
morte dal professore della Bocconi e “finite”, con l'ultimo colpo alla tempia,
da un ex presidente della Camera che, come già aveva previsto Massimo D'Alema
qualche anno fa, oggi muore vittima della sua stessa strategia con il ritorno–
da badante - alla casa in fiamme di papà Silvio.
Siamo ormai da un ventennio nel mondo
l'icona più eloquente del nobile decaduto, con una classe politica che continua
imperterrita ad attaccare demagogicamente e con grande astuzia l'influenza di
un corporativismo (che in verità in gran parte tutela le specifiche
professionalità) e dei gruppi di pressione, quando è essa medesima, anche se
oggi forse non più in toto, tempio dal limite invalicabile ed asilo-protezione
di irrinunciabili privilegi.
E tuttavia si vuole qui ribadire che
l'esercizio della carica elettiva può essere considerato una professione, con i
suoi costi retributivi congruamente definiti,contando su risorse reali e non
presunte perché riferiti ad altri capitoli di bilancio.
Liberare i nostri rappresentanti
dall'odioso giogo del parassitismo dissociante è una irrinunciabile priorità
del fare, ed il diffuso desiderio - che oggi registriamo -di disfare è puro
impulso da tenere a bada.
Perché questo esecutivo, per la sua
atipicità ed in perfetta corrispondenza con le condizioni che ne hanno
determinato la nascita e legittimato l'azione, è l'unico, inattesa della nuova
legge elettorale, che può e deve preparare la strada ad una nuova guida del
Paese che goda di un consenso popolare opportunamente espresso.
Non abbia premura dunque il signor
Renzi, se veramente vuole far ritrovare la propria identità ad una Italia
duramente provata, e non ascolti pertanto ogni umana e comprensibile ambizione
arrivistica.
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