di domenico Cacopardo
Gli scricchiolii dei giorni scorsi
sembrano evolvere verso un vero e proprio smottamento dei 5 Stelle. Un leader tantoesagitato
da sembrare addittivato (come spesso accade agli One man shower) autoritario più del lecito, assistito da un piccolo
Goebbels personale, in un mix di antagonismo e di fascismo squadrista (come
visto alla Camera nell’attacco fisico degli avversari), non riesce, nonostante
espella e minacci sfracelli, a tenere unito un gruppo di parlamentari scelti (senza
alcuna garanzia di trasparenza) dal web, cioè da cerchie più o meno vaste di
amici.
Certo, molti dei neodeputati e dei
neosenatori a 5 Stelle sono saliti sul carro di Grillo come si sale su un
autobus celere. Smaniosi di far politica, esclusi dai partiti in campo, tutti padronali
o a statuto democratico, hanno visto nelle esibizioni sopra le righe
dell’excomico genovese l’occasione per uscire dall’oscurità.
La crisi del Movimento 5 Stelle è il
primo frutto politico dell’operazione Renzi. Di fronte all’entusiasmo, alla
comunicativa piana e immediatamente convincente (poi, riflettendoci, emergono
mille dubbi), di fronte alla novità che dovrebbe rimettere in moto la
Repubblica, risulta difficile, forse assurdo, rimanere fuori, in una sorta di
autocastrazione permanente.
Questo profilo deve indurci a considerare
in modo più attento il nuovismo renziano e quello che rappresenta in questo
momento storico.
Non c’è dubbio che un po’ mentendo (come
nel caso di Letta, rassicurato e spinto da Renzi all’inerzia in attesa del
passaggio della legge elettorale da un ramo del Parlamento e poi infilzato per
quella medesima inerzia), un po’ imbonendo, un po’ saltando gli ostacoli (che
però rimangono tutti sul terreno, come Leningrado rimase sovietica nonostante
l’avanzata tedesca) il premier abbia bruciato i tempi conquistando il governo
del Paese prima di quanto ci aspettassimo.
Ed è anche vero che tutti sono stati
strumentalizzati: D’Alema elevato a simbolo del vecchio, Berlusconi raccolto sulla
strada dell’applicazione delle misure alternative al carcere, Cuperlo sconfitto
nelle primarie, Bersani strapazzato in quanto rappresentante di una
nomenklatura sclerotizzata, tutti sono serviti ad accreditare l’immagine di un
giovane capace di affrontare le questioni in cui ci dibattiamo da vent’anni e
risolverle.
Il viaggio a Treviso e quelli che farà si
collocano proprio all’interno di un modo di concepire la politica: stare fuori
dal palazzo, parlare, prospettare il futuro, accrescere la simpatia e il
consenso.
Come nel caso di Berlusconi e di Grillo
il problema è di passare dalle piazze reali o mediatiche alle aule parlamentari
e concludere quanto promesso (vedere la pessima figura rimediata nel
decreto-legge per Roma).
Intanto, Renzi ha introdotto il seme di
un nuovo modo di fare politica: una forma comunicativa imparata da altri e
coniugata con la propria gioventù.
Ci ha messo la faccia, è vero. Ma,
diversamente da come dice, a pagare non sarebbe il signor Matteo Renzi da
Rignano sull’Arno. A pagare il prezzo, molto salato, di un fallimento saremmo
tutti noi.
È bene rifletterci.
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