8 giu 2013

Un commento di Domenico Cacopardo




STRETTI NELLA TAGLIOLA
di domenico Cacopardo


Accecati dalla buona notizia della chiusura del procedimento d’infrazione per eccesso di deficit, i media non si sono soffermati sul resto del documento che ci riguarda.
L’Unione europea, prima di tutto, ricorda, a proposito dell’Imu, che, in caso di mancata adozione entro Agosto di una riforma a tutti gli effetti neutrale sui saldi di bilancio, la rata sospesa dovrà essere pagata entro il 16 settembre. Poi, ci rifila il colpo più duro: dato che il rapporto debito pubblico/Pil viaggia verso il 131,4%  nel 2013 e verso il 132,2% nel 2014, dovremo compiere significativi progressi sulla strada della riduzione del rapporto e avviarci verso il raggiungimento dell’obiettivo del 60% entro la data stabilita del 2033 (un ventennio al ritmo di almeno il 5% annuo: una cosa impossibile e suicida e a Bruxelles lo sanno).
L’Europa dimentica che l’aumento del rapporto è derivato da due fattori: le ingenti risorse fornite dall’Italia come contributo al risanamento finanziario dei paesi in sofferenza; la caduta del Pil che ha spinto verso l’alto il dato complessivo.
Emerge oggi, in tutta la sua gravità, l’errore politico (e tecnico) commesso dal governo del leggiadro Mario Monti, teso ad accontentare da primo ministro italiano quella burocrazia comunitaria che aveva già pienamente accontentato da commissario europeo.
Di fondo, c’è che in Nord-Europa vivono e prosperano una quarantina di grandi famiglie (e di grandi imprese) –nei cui confronti la burocrazia di Bruxelles è totalmente prona- che determinano la politica degli stati nazionali e che dall’Unione europea traggono tutto l’utile speculativo possibile.
Per il Sud-Europa non c’è partita, attualmente. Il medesimo Fiscal compact è prima di tutto strumento politico di soggezione dei paesi deboli o in difficoltà. Proprio riguardo al Fiscal compact, su questo giornale avevo espresso profonde riserve, ancora prima della firma.
Oggi, siamo, puntualmente, nella tagliola: del resto, a suo tempo, Pd e Pdl subirono senza reazioni il diktat e accettarono supinamente il trattato, fonte di ulteriori e inutili disagi e sacrifici.
Non c’è, infatti, nessuna concreta possibilità di abbattere il rapporto debito pubblico/Pil senza che il meccanismo di sviluppo si rimetta in piedi; senza che l’ineffabile Bce imponga ai beneficiari dei suoi regali (le banche ricevono quattrini all’1%) di non comprare titoli di Stato al 5/6% e di irrorare di liquidità il sistema produttivo; senza che il nostro governo chieda un intervento di sostegno di almeno 50 miliardi di euro, proprio per affrontare il tempo che ci resta prima che l’economia riparta; senza che l’Italia effettui una manovra straordinaria su almeno un terzo del debito (è tutto scritto: il progetto migliore porta la firma di Andrea Monorchio, un grande ragioniere generale dello Stato).
Questa la partita che il governo Letta deve giocare e affrontare con i nervi saldi. Certo il movimentismo di Matteo Renzi non aiuta e ripropone la fragilità di un sistema politico, il nostro, in perenne fibrillazione per le ambizioni di questo o quell’esponente politico: invece, abbiamo, più che mai, necessità di uno stabile governo che, con passo sicuro, percorra l’amaro e difficile sentiero che abbiamo davanti.
Il giovane sindaco di Firenze, compreso che il successo di Enrico Letta può rappresentare la propria rottamazione, tenta quotidianamente di destabilizzarlo nella speranza che un naufragio governativo gli apra le porte del potere.
A mio modo di vedere –e con questo revoco le precedenti simpatie- questa tattica ha già condotto Renzi sulla via infausta percorsa da Mario Segni e, quindi, verso una malinconica archiviazione.

1 commento:

  1. Ancora una tua analisi puntuale e precisa....l'unica mia perplessità rimane quella del riscontro con un Governo senza una base d'appoggio forte e senza le fondamentali riforme necessarie anche per l'innovazione.

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