STRETTI NELLA TAGLIOLA
di domenico Cacopardo
Accecati dalla buona notizia della chiusura del
procedimento d’infrazione per eccesso di deficit, i media non si sono
soffermati sul resto del documento che ci riguarda.
L’Unione europea, prima di tutto, ricorda, a proposito
dell’Imu, che, in caso di mancata adozione entro Agosto di una riforma a tutti
gli effetti neutrale sui saldi di bilancio, la rata sospesa dovrà essere pagata
entro il 16 settembre. Poi, ci rifila il colpo più duro: dato che il rapporto
debito pubblico/Pil viaggia verso il 131,4% nel 2013 e verso il 132,2%
nel 2014, dovremo compiere significativi progressi sulla strada della riduzione
del rapporto e avviarci verso il raggiungimento dell’obiettivo del 60% entro la
data stabilita del 2033 (un ventennio al ritmo di almeno il 5% annuo: una cosa
impossibile e suicida e a Bruxelles lo sanno).
L’Europa dimentica che l’aumento del rapporto è
derivato da due fattori: le ingenti risorse fornite dall’Italia come contributo
al risanamento finanziario dei paesi in sofferenza; la caduta del Pil che ha
spinto verso l’alto il dato complessivo.
Emerge oggi, in tutta la sua gravità, l’errore
politico (e tecnico) commesso dal governo del leggiadro Mario Monti, teso ad
accontentare da primo ministro italiano quella burocrazia comunitaria che aveva
già pienamente accontentato da commissario europeo.
Di fondo, c’è che in Nord-Europa vivono e prosperano
una quarantina di grandi famiglie (e di grandi imprese) –nei cui confronti la burocrazia di
Bruxelles è totalmente prona- che determinano la politica degli stati nazionali e che dall’Unione europea traggono tutto l’utile speculativo possibile.
Per il Sud-Europa non c’è partita, attualmente. Il
medesimo Fiscal compact è prima di tutto strumento politico di soggezione dei
paesi deboli o in difficoltà. Proprio riguardo al Fiscal compact, su questo giornale
avevo espresso profonde riserve, ancora prima della firma.
Oggi, siamo, puntualmente, nella tagliola: del resto,
a suo tempo, Pd e Pdl subirono senza reazioni il diktat e accettarono
supinamente il trattato, fonte di ulteriori e inutili disagi e sacrifici.
Non c’è, infatti, nessuna concreta possibilità di
abbattere il rapporto debito pubblico/Pil senza che il meccanismo di sviluppo
si rimetta in piedi; senza che l’ineffabile Bce imponga ai beneficiari dei suoi
regali (le banche ricevono quattrini all’1%) di non comprare titoli di Stato al
5/6% e di irrorare di liquidità il sistema produttivo; senza che il nostro governo chieda un
intervento di sostegno di almeno 50 miliardi di euro, proprio per affrontare il tempo che ci resta prima che l’economia riparta; senza che l’Italia effettui
una manovra straordinaria su almeno un terzo del debito (è tutto scritto: il progetto migliore porta la firma di Andrea Monorchio, un grande ragioniere
generale dello Stato).
Questa la partita che il governo Letta deve giocare e
affrontare con i nervi saldi. Certo il movimentismo di Matteo Renzi non aiuta e
ripropone la fragilità di un sistema politico, il nostro, in perenne fibrillazione
per le ambizioni di questo o quell’esponente politico: invece, abbiamo, più che
mai, necessità di uno stabile governo che, con passo sicuro, percorra l’amaro e
difficile sentiero che abbiamo davanti.
Il giovane sindaco di Firenze, compreso che il
successo di Enrico Letta può rappresentare la propria rottamazione, tenta
quotidianamente di destabilizzarlo nella speranza che un naufragio governativo
gli apra le porte del potere.
A mio modo di vedere –e con questo revoco le
precedenti simpatie- questa tattica ha già condotto Renzi sulla via infausta
percorsa da Mario Segni e, quindi, verso una malinconica archiviazione.
Ancora una tua analisi puntuale e precisa....l'unica mia perplessità rimane quella del riscontro con un Governo senza una base d'appoggio forte e senza le fondamentali riforme necessarie anche per l'innovazione.
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