Le nuove proposte di un giovane Movimento.
(a fianco: Giuseppe Prete, presidente MGO)
Già da tempo assistiamo alla nascita di nuovi Movimenti. Uno
tra questi è M.G.O. (movimento gente onesta). Uno di quei Movimenti per la ricerca
di nuove idee che non vorrebbe agganciarsi ad una logica politica già esistente,
ma rincorrere una strada più innovativa per le soluzioni dell’Economia del
Paese.
Presidente e Fondatore del Movimento è Giuseppe Prete che
esprime con queste parole il percorso dell’organizzazione:
“ il nostro Movimento, (poichè si occupa
di definire le strutture più razionali e di scegliere nuove regole di
comportamento per le Istituzioni Pubbliche e Private), intende seguire la strada di una
disciplina che mira a ridurre gli sprechi, utilizzare al meglio le risorse
disponibili ed ottenere i più elevati risultati per il bene della
collettività. Con queste decisioni forti, meritocratiche,
possiamo portare il Paese al cambiamento! Ogni esperienza passata e vissuta con
questa classe politica, ci ha indotto, e obbligati, a metterci in gioco per
anticipare eventi dannosi per il futuro.”
Una ulteriore
volontà da parte di questi cittadini di immedesimarsi nel lavoro di uno studio
innovativo per rendere al paese un servizio più funzionale al sistema. Un
impegno che sembra spinto dalla passione e dall’amore per la politica...al di là del “retorico” messaggio
sull’”onestà” posto nella sigla. Un messaggio che propone ciò che dovrebbe, di
per sé, esser connaturato in ogni programma…ma..forse.. non declamato come qualifica.
L’andamento economico
del Paese di Giuseppe Prete
Sarà colpa dello spread, che ha smesso di essere ansiogeno, ma
ci stiamo dimenticando della Grande Emergenza, e ci occupiamo – inutilmente –
delle piccole, e talvolta presunte, emergenze. Chissenefrega di Imu e Iva da
rinviare – si badi bene, da rinviare di qualche mese, non da ridurre – e
pazienza se non c’è più capienza per finanziare la cassa integrazione
straordinaria. Qui il tema vero è bloccare l’avvitamento di una crisi che, a
politiche invariate, non si fermerà non solo nella seconda metà dell’anno ma
neppure nel 2014. E non si ferma mettendo qualche toppa o affidandosi a piccole
riforme, magari anche preziose ma di fatto ininfluenti, bensì con una cura
choc, un grande piano Marshall per la riconversione economica e produttiva
dell’Italia. Invece parliamo d’altro, e il clima nel paese è tornato ad essere
di sostanziale inconsapevolezza della gravità della situazione. Incoscienza
resa ancor più accentuata dall’abitudine, ormai diffusa anche nei bar, di dare
la colpa all’Europa dei “tedeschi cattivi”: cosa che pure ha un suo fondo di
verità, ma che come spesso ci capita noi usiamo per scaricarci la coscienza e
deresponsabilizzarci rispetto a quello che c’è da fare a prescindere
dall’eurosistema.
Eppure, i segnali di allarme non mancano. Per esempio, il pil
nel primo trimestre di quest’anno è andato peggio delle già negative
previsioni, con un calo dello 0,6% rispetto al trimestre precedente e del 2,4%
rispetto al primo trimestre 2012. La variazione negativa già acquisita per
l’anno in corso è dell’1,6%, percentuale che supera le stime sia del governo
che di molti organismi nazionali e internazionali. Ora, è vero che le
percentuali mensili e trimestrali della produzione di ricchezza non sono così facilmente
leggibili come il quotidiano bollettino di guerra dello spread, ma non dovrebbe
essere troppo complicato capire che se l’economia retrocede da otto trimestri
consecutivi (compreso quello attuale, di cui non abbiamo ancora dati ufficiali
ma è certo che porta anch’esso il segno meno), che si aggiungono ai sei
trimestri di recessione del 2008-2009 per un totale di tre anni e mezzo (che
diventeranno 4 a fine 2013 per un totale di una decina di punti di pil
perduti), vuol dire che stiamo parlando di una catastrofe di proporzioni
gigantesche. Di fronte alla quale è assurdo – e criminale – sia aspettare che
la soluzioni ci arrivi dall’Europa, sia mettere mano a pannicelli tiepidi.
Perché finora, di questo si è trattato: il nulla.
Provate a sommare: sei mesi di inattività del governo Monti –
bene o male che stesse facendo, si è di fatto fermato a metà del 2012 – più due
mesi di campagna elettorale e altrettanti di demenziale gestione del dopo-voto.
Totale: dieci mesi di assenza di governo. Ora si aggiungono i 45 giorni di vita
del governo Letta, dai quali certo non si poteva pretendere la soluzione di
tutti i problemi, ma che sono più che sufficienti per misurarne un approccio –
forse inevitabilmente, vista la precarietà del processo di alleanza tra Pd e Pdl
– piuttosto prudente. Insomma, comunque la si rigiri, all’Italia manca il polso
di un governo da quasi un anno, e questo nel pieno di una crisi economica, e
ormai anche sociale, senza precedenti. Ecco la Grande Emergenza: il combinato
disposto di una recessione monstre, della mancanza di un vero governo nazionale
e della latitanza di decisioni politiche lungimiranti a livello comunitario.
Ebbene, al cospetto di tutto questo, di fronte all’allarme della
Bce che ci dice chiaramente che non possiamo diluire alcuno degli impegni presi
in sede Ue, noi che facciamo? Pratichiamo il gioco della “coperta corta”. E
quando si battono i denti, è la cosa più stupida che si possa fare: testa o
gambe che restino scoperte, sempre di freddo si muore. Abbiamo miracolosamente partorito
un governo di grande coalizione, cioè esattamente quello che ci vuole in
situazioni di emergenza, ma stiamo buttando via l’occasione – probabilmente non
a caso, visto che il patto di maggioranza è nato per sfinimento, senza alcuna
convinzione (specie a sinistra) e soprattutto senza la necessaria
consapevolezza – proprio perché anziché provare a fare le cose fino a ieri
impossibili, i partiti e gli stessi ministri si dividono sulla priorità da dare
alle piccole cose possibili, che per nobilitarle vengono chiamate emergenze.
Esattamente la “coperta corta”: c’è chi la tira per Imu e blocco dell’aumento
dell’Iva, c’è chi all’opposto la tira per finanziare la cassa integrazione e
inventarsi politiche per il lavoro. Forse si riesce, con fatica e tempi infiniti,
a fare in modo che copra un po’ sia le une che le altre parti scoperte. E forse
la coperta non si rompe, specie se si trova come elemento unificante la comune
invocazione all’Europa di concederci una coperta più larga, anche se
inutilmente. Ma quand’anche? Non servirebbe a nulla. Una fatica perfettamente
inutile: non è così che si salva l’Italia. L’unico modo è cambiare la coperta.
E per farlo occorrono terapie choc. Operazioni straordinarie.
Un grande piano nazionale con cui mettere in campo misure
straordinarie (per dimensione) e strutturali (non emergenziali). E che va fatto
a prescindere dall’Europa. Letta lasci perdere i giochi di equilibrio tra Pd e
Pdl, non si illuda che siano le politiche soft – pur necessarie, sia chiaro –
tipo le semplificazioni o le normative per i giovani a risolvere la crisi
italiana. Usi dosi massicce di coraggio, e prepari una grande iniziativa che:
a. metta in gioco il patrimonio pubblico (dello Stato ma anche degli enti
locali); b. incentivi ma obblighi il patrimonio privato a rendersi funzionale
allo sviluppo; c. converta una fetta tra il 10% e il 20% della spesa pubblica
da spesa corrente a investimenti in conto capitale. Un operazione da qualche
centinaio di miliardi, da spendersi sia riducendo in modo significativo il
carico fiscale su imprese e lavoro, sia dando il via ad alcuni piani di
infrastrutturazione (materiali e immateriali) del paese, sia infine favorendo
la nascita di nuove realtà industriali.
Secondo noi, per un piano Marshall il Paese è pronto. Anzi, desideroso
che finalmente ci sia qualcuno che sappia fare uno scarto di corsia. Solo la
politica, che gioca con la “coperta corta”, non l’ha capito. Ma Letta, che
sappiamo esserne cosciente, deve battere un colpo. Secco.
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