5 lug 2013

un commento di Domenico Cacopardo

IN PRINCIPIO ERA LA FORZA
di domenico Cacopardo

 Confermando l’assenza di ogni strategia (manca molto all’Amministrazione americana un personaggio come Hillary Clinton sostituita dallo scialbo gaffeur Kerry), Barak Obama in Egitto ha cambiato di nuovo politica: prima con Mubarak, poi contro Mubarak, poi con Morsi (al quale ha telefonato ancora tre giorni fa invitandolo a resistere e ad aprire un dialogo con Tamarud, il movimento popolare antiMorsi, infine non si sa bene con chi). Per gli Stati Uniti si tratta di una perdita totale di credibilità.
Approfondiamo la questione generale di cui ci occupiamo.
Alle origini dominava la forza. Uomini più deboli si unirono per far fronte, con il numero, a uomini più potenti.
I campioni della real-politik, da Pericle a De Gaulle, hanno sempre saputo che è la forza a dominare i rapporti tra le nazioni, a dispetto di tanti buoni spiriti che pensano ad altre ragioni, dalla religione all’ideologia. Certo, la forza di cui parliamo è un concetto complesso che ingloba l’economia, la società e la sua coesione, l’efficacia dello strumento militare, le alleanze. Stringi, stringi, però è lo strumento militare che regola, ancora oggi, come duemila anni fa, le relazioni tra gli stati.
Questo ragionamento era necessario, dato che ci occupiamo di Barak Obama e del brutto momento internazionale degli Stati Uniti. Di questi tempi il mondo è dominato da tre paesi principali. Mi riferisco, naturalmente, agli Stati Uniti, alla Russia e alla Cina.
Qui sorge il primo problema: possono i governanti di queste nazioni, designati ed eletti in vari modi, determinare il destino del resto del mondo?
Lo possono, visto il criterio che ancora regola i rapporti internazionali. Le Nazioni Unite non riescono a essere il soggetto regolatore immaginato nel 1945 e possono occuparsi efficacemente soltanto di questioni marginali.
L’Europa, il nostro sogno irrealizzato, era nata, fra l’altro, proprio per porre tra le due potenze dominanti, Usa e Urss, un terzo soggetto di pari peso.
Per la parte occidentale, quindi, speciali responsabilità incombono sul presidente degli Stati Uniti d’America. Eletto in virtù di una grande capacità comunicativa (una sommatoria di J. F. Kennedy, papa Wojtyla e Berlusconi) , Obama ha dimostrato che non basta la capacità di galvanizzare la gente per essere capaci di governare.
Le difficoltà americane sono particolarmente evidenti nella politica internazionale e nello scenario mediterraneo.
Quattro anni fa vigeva un sistema di equilibri che impediva ai fondamentalisti islamici di prevalere. Il prezzo era la mancanza di democrazia e la diffusa corruzione dei governi. Era inevitabile che i regimi egiziano, libico e tunisino crollassero. Ma non era inevitabile che gli Stati Uniti (e l’Europa al seguito) si infilassero in una trasformazione che ha portato la Libia e parte della Tunisia a essere territorio privilegiato di Al Qaeda, e l’Egitto a finire, ormai non più (sino a quando?), nelle mani dei Fratelli musulmani. Le vicende di questi mesi in Egitto dimostrerebbero che una grande nazione laica non può essere ristretta nel recinto di un progetto politico-religioso integralista e confermerebbero i dubbi sulla compatibilità tra democrazia e Islam.
Nello sconcerto attuale, l’impressione è che gli Stati Uniti non sappiano che pesci prendere. Non hanno, però, scelta: il regime militare deve essere appoggiato e spinto verso una rapida ricostruzione democratica.
Sullo sfondo, il pasticcio siriano, colpo finale a una politica incerta e incapace di tutelare gli interessi della lotta al terrorismo, visto che là viene sostenuto uno schieramento comprendente Al Qaeda e centinaia di suoi militanti, specialmente ceceni.
Tutto questo accade a poche miglia dall’Italia.

Anni fa, Muhammar Gheddafi ci lanciò contro alcuni missili. Caddero in mare in prossimità di Lampedusa. Ricordiamocelo.

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