IN PRINCIPIO ERA LA FORZA
di domenico Cacopardo
Confermando l’assenza di
ogni strategia (manca molto all’Amministrazione americana un personaggio come
Hillary Clinton sostituita dallo scialbo gaffeur Kerry), Barak Obama in Egitto
ha cambiato di nuovo politica: prima con Mubarak, poi contro Mubarak, poi con
Morsi (al quale ha telefonato ancora tre giorni fa invitandolo a resistere e ad
aprire un dialogo con Tamarud, il movimento popolare antiMorsi, infine non si
sa bene con chi). Per gli Stati Uniti si tratta di una perdita totale di
credibilità.
Approfondiamo la
questione generale di cui ci occupiamo.
Alle origini dominava la
forza. Uomini più deboli si unirono per far fronte, con il numero, a uomini più
potenti.
I campioni della
real-politik, da Pericle a De Gaulle, hanno sempre saputo che è la forza a dominare
i rapporti tra le nazioni, a dispetto di tanti buoni spiriti che pensano ad
altre ragioni, dalla religione all’ideologia. Certo, la forza di cui parliamo è
un concetto complesso che ingloba l’economia, la società e la sua coesione,
l’efficacia dello strumento militare, le alleanze. Stringi, stringi, però è lo
strumento militare che regola, ancora oggi, come duemila anni fa, le relazioni
tra gli stati.
Questo ragionamento era
necessario, dato che ci occupiamo di Barak Obama e del brutto momento internazionale
degli Stati Uniti. Di questi tempi il mondo è dominato da tre paesi principali.
Mi riferisco, naturalmente, agli Stati Uniti, alla Russia e alla Cina.
Qui sorge il primo
problema: possono i governanti di queste nazioni, designati ed eletti in vari
modi, determinare il destino del resto del mondo?
Lo possono, visto il
criterio che ancora regola i rapporti internazionali. Le Nazioni Unite non
riescono a essere il soggetto regolatore immaginato nel 1945 e possono
occuparsi efficacemente soltanto di questioni marginali.
L’Europa, il nostro
sogno irrealizzato, era nata, fra l’altro, proprio per porre tra le due potenze
dominanti, Usa e Urss, un terzo soggetto di pari peso.
Per la parte
occidentale, quindi, speciali responsabilità incombono sul presidente degli
Stati Uniti d’America. Eletto in virtù di una grande capacità comunicativa (una
sommatoria di J. F. Kennedy, papa Wojtyla e Berlusconi) , Obama ha dimostrato
che non basta la capacità di galvanizzare la gente per essere capaci di
governare.
Le difficoltà americane
sono particolarmente evidenti nella politica internazionale e nello scenario
mediterraneo.
Quattro anni fa vigeva
un sistema di equilibri che impediva ai fondamentalisti islamici di prevalere.
Il prezzo era la mancanza di democrazia e la diffusa corruzione dei governi.
Era inevitabile che i regimi egiziano, libico e tunisino crollassero. Ma non
era inevitabile che gli Stati Uniti (e l’Europa al seguito) si infilassero in
una trasformazione che ha portato la Libia e parte della Tunisia a essere
territorio privilegiato di Al Qaeda, e l’Egitto a finire, ormai non più (sino a
quando?), nelle mani dei Fratelli musulmani. Le vicende di questi mesi in
Egitto dimostrerebbero che una grande nazione laica non può essere ristretta
nel recinto di un progetto politico-religioso integralista e confermerebbero i
dubbi sulla compatibilità tra democrazia e Islam.
Nello sconcerto attuale,
l’impressione è che gli Stati Uniti non sappiano che pesci prendere. Non hanno,
però, scelta: il regime militare deve essere appoggiato e spinto verso una
rapida ricostruzione democratica.
Sullo sfondo, il
pasticcio siriano, colpo finale a una politica incerta e incapace di tutelare
gli interessi della lotta al terrorismo, visto che là viene sostenuto uno
schieramento comprendente Al Qaeda e centinaia di suoi militanti, specialmente
ceceni.
Tutto questo accade a
poche miglia dall’Italia.
Anni fa, Muhammar
Gheddafi ci lanciò contro alcuni missili. Caddero in mare in prossimità di
Lampedusa. Ricordiamocelo.
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