28 ago 2013

Un commento di Alberto Cacopardo



Agli occhi di qualunque osservatore disincantato, quel che è seguito in Italia alla condanna in Cassazione di Silvio Berlusconi per il processo Mediaset dovrebbe avere il sapore di una sorta di delirio collettivo.
Nella rappresentazione dei media è passato del tutto in secondo piano il fatto che più di tutti dovrebbe interessare un’opinione pubblica accorta e sana: il reato di Silvio Berlusconi. L’ex-cavaliere ha orchestrato una gigantesca ruberia ai danni dello stato, cioè di tutti gli italiani. E’ stato scoperto. La sua colpa è stata dimostrata in tre gradi di giudizio ed è stato condannato, ad una pena tutto sommato irrisoria in paragone alle centinaia di milioni di euro in cui si misura l’entità della frode.
Ma tutto questo è caduto nell’ombra. Su cosa esattamente abbia commesso Berlusconi gli italiani sono stati informati a stento. C’è da giurare che il medio spettatore di telegiornali sarebbe in grave difficoltà a spiegare di cosa si tratta, perché nessuno glielo ha raccontato.
Invece siamo stati subissati di notizie sulle reazioni alla sentenza da parte di Berlusconi e di tutti i suoi accoliti, falchi, colombe, galletti e galline. Berlusconi si dichiara innocente. Berlusconi si dichiara perseguitato dalla magistratura. Berlusconi pretende dai suoi avversari politici una “soluzione” che garantisca la sua “agibilità politica”.
Il solo fatto che un uomo che si è reso responsabile di quella gigantesca ruberia possa pretendere ancora di candidarsi a gestire la cosa comune dovrebbe bastare a suscitare la più ardente indignazione. Invece questo è l’argomento all’ordine del giorno, come se fosse la cosa più normale del mondo.
E come viene giustificata una simile assurda pretesa? Non certo accennando a dimostrare l’innocenza sfacciatamente proclamata, che sarebbe impresa impossibile. No, Berlusconi dev’essere salvato perché “rappresenta dieci milioni di italiani”, lo ha gridato e sbraitato in testa a tutti la spavalda Daniela Santanché, donna tanto povera di grazia quanto è ricca di non celata cattiveria. Vorrei che un qualche altro spavaldo, davanti a questo impresentabile argomento, avesse il coraggio di rispondere: ma se davvero ci sono dieci milioni di italiani che ancora vogliono Berlusconi al potere, i casi sono due, o credono veramente che sia innocente, e allora sono dei grulli buoni soltanto a farsi infinocchiare, oppure sono convinti che vada benissimo se abbiamo a capo del governo un maestro di false fatturazioni, che vuoi che sia, lo hanno fatto milioni di italiani, forse appunto dieci.
In ogni caso quei milioni hanno torto marcio, questa è la pura verità. Come evidentemente ritengono gli altri trentasette milioni di elettori che di Berlusconi non ne possono più.
Ma la cosa più inquietante non è questa.
Ciò che è più inquietante in questa storia è qualcosa che sembra sfuggire a quasi tutti. E’ il fatto che la sfrontata rivendicazione di questa “agibilità politica” non si fonda semplicemente sulla celebrazione della personale posizione di Berlusconi come leader di una specie di partito. Si fonda su tutta una concezione politica secondo la quale chi esercita il potere deve essere, in virtù del mandato popolare che lo ha eletto, svincolato da qualsiasi condizionamento della sua sovrana volontà, fino ad innalzarlo al di sopra della legge, dunque di ogni giudice.
Questa concezione non è un disegno occulto. E’ stata apertamente proclamata da Silvio Berlusconi e da tutti i suoi accoliti cantanti ormai da decenni.
Appena tre giorni fa, la ha ribadita in maniera chiarissima ai microfoni di RadioUno una triste emula della trista Santanché, l’eurodeputata Pdl Lara Comi. Si tratta, ha detto testualmente, di “garantire l’autonomia della politica dal potere giudiziario”. Il buon conduttore della trasmissione non ha dato alcun segno di accorgersi dell’enormità di una simile dichiarazione.
La signora Lara Comi aveva appena proclamato l’esatto contrario di uno dei principi fondamentali su cui si basa la democrazia contemporanea. Da circa tre secoli a questa parte la costruzione delle istituzioni democratiche si è fondata sulla battaglia per garantire l’autonomia del potere giudiziario dalla politica. E non per caso. Ma perché il primo pilastro su cui si fonda la democrazia, prima ancora del principio di rappresentanza, è il concetto che chi esercita il potere deve essere sottoposto alla legge, come e più ancora di qualsiasi altro cittadino. E’ quello che si chiama rule of law, la supremazia della legge, fondamento dello stato di diritto. Non è semplicemente una questione di uguaglianza. E’ qualcosa di più fondamentale, è la garanzia contro l’eventuale abuso del potere, è il principio che ha situato il potere al di sotto della collettività su cui si esercita, anziché al di sopra come era sempre stato. Questo è il fondamento della democrazia: e questo è quello contro cui si è sempre battuto Silvio Berlusconi.
E’ triste che tutto ciò sia stato scambiato per una semplice forma di “populismo”. Questo non è populismo, è una concezione radicalmente eversiva.


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