Il caso Procura della Repubblica di Milano, sollevato da un ricorso del procuratore aggiunto Alfredo Robledo avverso le decisioni organizzative e preprocessuali del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, inizia a essere dipanato. Il barocco Consiglio superiore della Magistratura, nella sua 7^ commissione competente sulle questioni organizzative, ha, infatti, adottato una prima determinazione che dovrebbe investire delle questioni sollevate i titolari dell’azione disciplinare: cioè il ministro della Giustizia e il procuratore generale della Cassazione.
Non avevamo torto, qualche giorno fa nel considerare manifestazione di debolezza il documento di appoggio a Bruti Liberati, firmato da tutti i magistrati della Procura, tranne, il capo, Robledo e la dottoressa Bocassini: di debolezza e di uno stile da Soviet leninista, fortunatamente in ribasso, il cui riflesso più evidente era una sorta di minaccia nei confronti dell’istruttoria in corso nel Consiglio superiore della Magistratura.
La settima commissione, alla fine, ha deciso a maggioranza dando torto a entrambi i contendenti: Bruti Liberati non avrebbe aggiornato i criteri di assegnazione dei fascicoli; non motivato alcune scelte; commesso un errore affidando alla Bocassini il processo Ruby senza adottare un formale motivato provvedimento. Insomma, rilievi –come si dice- di rito e di merito, in particolare quelli che riguardano i criteri di assegnazione dei fascicoli.
Quanto a Robledo, avrebbe rischiato di violare la riservatezza dell’inchiesta Expo (un’osservazione particolarmente lieve, visto che un conto è violare il segreto d’ufficio, un altro è rischiare di violare, senza, però, concretamente farlo), avrebbe sbagliato nel rilevare una sovrapposizione di indagini e, poi, nel duplicare l’attività della Polizia giudiziaria (in questo caso la Guardia di Finanza).
Emerge di nuovo, in modo pur ovattato, un problema che ha travagliato varie procure, compresa quella cruciale di Palermo (a scapito di Giovanni Falcone): il possibile conflitto tra definizione di criteri meccanici di assegnazione dei fascicoli e rapporto fiduciario tra aggiunti, sostituti e capo dell’ufficio.
Il meccanismo immaginato negli anni ’80 da alcune correnti della magistratura (in primis Magistratura democratica) prevedeva la spoliazione di ogni possibilità discrezionale (del capo) nell’assegnazione dei fascicoli e, quindi, una sorta di rotazione di inquirenti, mitigata dall’introduzione delle competenze funzionali (reati finanziari, contro la pubblica amministrazione, terrorismo e così via).
L’idea che i giudici e i pubblici ministeri siano tutti uguali, che avanzino solo per anzianità, e che abbiamo il medesimo trattamento, s’è nella pratica rivelata profondamente errata, visti i tanti inconvenienti prodotti. Non è infatti detto che un magistrato pozzo di scienza giuridica possieda capacità investigative o organizzative e che possa espletare, quindi, le sue funzioni con la medesima efficacia di un collega meno pozzo di scienza, ma dotato di tecnica e istinto investigativi.
Nella querelle occorrerebbe trovare un reale contemperamento che valorizzi le capacità di giudizio e di direzione dei procuratori capi (valutati, per la funzione, proprio dal Csm), consentendo loro, nel rispetto dei colleghi subordinati, di scegliere, per la trattazione di processi delicati, quelli che ritengono più idonei. C’è da aggiungere che così la responsabilità del procuratore capo avrebbe la possibilità di esprimersi pienamente. Solo l’eventuale abuso di una simile facoltà dovrebbe essere censurato.
Intanto, la palla è passata alla 5^ commissione che si occupa delle promozioni, cioè della nomina dei capi degli uffici. Delle sue decisioni oramai prossime, ci occuperemo quando avremo la possibilità di prenderne visione integrale.
domenico Cacopardo
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