di domenico cacopardo
L’epocale ingresso di Matteo Renzi nelle vesti di presidente semestrale dell’Unione europea si è concluso con una incredibile manifestazione di provincialismo e superficialità.
L’epocale ingresso di Matteo Renzi nelle vesti di presidente semestrale dell’Unione europea si è concluso con una incredibile manifestazione di provincialismo e superficialità.
Invece
di affrontare una dura conferenza stampa con i giornalisti dei 28
paesi, è saltato sull’aereo presidenziale ed è corso a Roma per
correre a Porta e porta e sedere sulla poltrona di rose preparatagli
da quella vecchia volpe del talk-show
che
risponde al nome di Bruno Vespa.
In
quest’episodio ci sono tutti i limiti del giovanotto fiorentino,
tutto votato alle piccole furbizie (i machiavellismi) di borgata,
che, sin qui, tanto gli hanno dato in termini di successo politico e
mediatico, complice un mondo incapace di una valutazione critica
delle sue parole e del suo operato (in
progress).
L’Europa
–e l’abbiamo già scritto- è un’altra cosa. E, in Europa (e
negli Stati Uniti, dove, al Council on foreign relations abbiamo
assistito a penose esibizioni di alcuni primi ministri italiani), le
cose vanno diversamente e il sussieguoso rispetto del normotipo del
giornalista italiano appare quello che è: persone schierate che
fanno propaganda pro o contro l’intervistato.
E dire
che il discorso, in fin dei conti, non era stato tanto male, pur
manifestando, ancora una volta, i limiti di statura del nostro
simpatico boy-scout:
il ricorso ai cardini della classicità europea, dalla Grecia (capta)
a Roma risultava un espediente retorico per evitare un difficoltoso
ragionamento di merito sulle ragioni dell’Italia (e Portogallo,
Spagna, Irlanda, Grecia e, last
but not least,
Francia) rispetto all’ortodossia comunitaria, rappresentata più
che dalla Merkel dalla Germania e dai suoi eurodeputati.
Se
avesse letto il discorso preparato con gli esperti (per la prima
volta qualche esperto al lavoro, dopo le drammatiche sciocchezze
sulla ristrutturazione del debito formulate dall’endocrinologo di
fiducia di Renzi, Mauro Del Rio), magari premettendo una
classicheggiante introduzione (nella quale, però, Euripide e gli
scettici avrebbero dovuto avere il posto che meritano) avrebbe
dimostrato un coraggio degasperiano (la perorazione davanti alle
potenze vincitrici della guerra) e avrebbe di sicuro conquistato se
non il consenso il rispetto dei parlamentari e dei governi europei:
insomma avrebbe mostrato dinnanzi all’Unione intera l’ombra lunga
di una bandiera a mezz’asta per la crisi e, al contempo, le
implicazioni generali di una situazione che l’Europa intera deve
farsi carico di risolvere.
La
verità vera è a Renzi interessano ancora i giochi nazionali, le
parole di Chiti e i capricci di Civati, l’aggressività supponente
di Di Maio e le esternazioni del fascitello genovese, excomico,
assurto a immeritato peso politico. Tra questi scogli sa muoversi con
furbizia, azzeccando tempi e modi, parole e proposte, in un
tourbillon
mediatico,
manifestazione dello sport preferito dal premier:
la ginnastica orale.
Ci
sarebbe da ridere, se non ci fossero domande serie e ineludibili che
ogni giorno accrescono l’angoscia di chi conosce il gioco e i suoi
rischi, ma anche di chi segue la stampa e le televisioni con un
minimo spirito critico. Ieri sera, a Lentini, nella Sicilia profonda,
alcuni giovani mi hanno detto: «Renzi è Berlusconi redivivo.»
Sembra
proprio così. Questa stagione di nuovismo che esprime finalità
condivisibili e condivise. Si pasticcia nel perseguirle.
Probabilmente
ha ragione Piersilvio Berlusconi: «Durerà vent’anni.» Purtroppo.
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