11 gen 2015

nuovo articolo di Domenico Cacopardo



La Germania studia da tempo l’ipotesi Grekit, l’uscita cioè della Grecia dall’euro. Un’ipotesi che le imminenti elezioni, con la probabile vittoria di Syriza, il partito di Alexis Tsipras, rendono più attuale. 

C’è da riflettere sul fatto che sia Berlino, in modo ben più autorevole di Bruxelles, ad affrontare i prossimi scenari comunitari. Naturalmente, Bruxelles ribadisce che l’ingresso nel sistema monetario euro non prevede una procedura di recesso e sostiene, a torto, che per questa ragione l’evento non potrà verificarsi. Una sciocchezza per mascherare una posizione difensiva: infatti, la mancata determinazione di una procedura non può impedire a uno Stato sovrano di recedere da un accordo internazionale, tanto più che, per ciò che si capisce, se la Grecia si decidesse, l’uscita riguarderebbe solo la moneta unica e non l’Unione europea. Insomma, una sorta di «reduction» a uno «status» simile a quello della floridissima Polonia.

Non è detto, però che lo scenario peggiore debba verificarsi. È vero che Tsipras, una specie di Vendola ellenico dalla comunicativa meno involuta e incomprensibile del collega italiano, dichiara di voler rinegoziare i termini del debito ellenico, chiedendone un taglio di almeno il 50%. E che la Germania respinge l’ipotesi contestando la ragione «storica» (il taglio del 50% del debito tedesco dopo la Seconda guerra mondiale). Non contesta, però, la Germania che l’operazione è tecnicamente possibile e che è l’unica praticabile visti i devastanti risultati ottenuti dalla «Troika» in Grecia e dal rigore del «Fiscal compact» nel resto del Sud-Europa. La storia ci dice che il debito sovrano non è mai stato restituito in senso tecnico ed è stato risanato con le operazioni più varie, mai con il rimborso del capitale nemmeno con un «timing» più mite di quello demenziale previsto dal medesimo «Fiscal compact», firmato per l’Italia dal tecnico Mario Monti.

Le posizioni di Germania e di Grecia sono evidentemente prenegoziali: si capirà la sostanza e il «punto di caduta» solo tra alcune settimane.

La Bce, però, lancia segnali di pace e fa filtrare l’intenzione di procedere con il «quantitative easing», l’acquisto cioè di titoli degli Stati dell’Unione, in modo da finanziare nuove politiche di sviluppo, integrative dell’ormai fantomatico piano Junker, le cui risorse oggi accertate sono ridicole, tra i 25 e i 30 miliardi di euro, quando la cifra necessaria sarebbe di almeno 300 miliardi di euro. 

A questo punto, la questione per noi italiani è solo una: qual è la visione del governo Renzi rispetto a questa possibile emergenza? Qualcuno, a Palazzo Chigi (che il cerchio magico chiama semplicemente «Chigi», nel senso di «Ci vediamo a Chigi») s’è posto il problema? Qualche economista dello «staff» presidenziale? Di sicuro, al ministero degli esteri, Gentiloni avrà allertato il ministro Andrea Tiriticco, un diplomatico di carriera, di quelli che conoscono il mestiere e che sono odiati da Renzi. Tiriticco è il capo del contenzioso diplomatico, l’ufficio che studia e affronta le questioni di diritto internazionale nelle quali il Paese si imbatte. 

Sarebbe importante conoscere il pensiero del «premier» in materia, non una delle frasi senza contenuto di cui è specialista, ma un articolato ragionamento sul prossimo tornante dell’Unione. Il problema si manifesterà a dimissioni di Napolitano consumate e a collegio elettorale appena insediato. E l’evolversi greco non sarà senza conseguenze nell’elezione, vista l’assoluta necessità di avere al Quirinale una personalità di sicuro rilievo internazionale. 

Sarebbe il caso di rafforzare Chigi, magari chiedendo la consulenza di un vero esperto, Lorenzo Bini Smaghi, l’uomo che «in pectore» dovrebbe essere il prossimo ministro dell’economia.

L’imperativo categorico, si sarebbe detto una volta, è attrezzarsi per giocare un ruolo significativo. 














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