20 giu 2015

un' osservazione su un articolo di Domenico Cacopardo

Ho sempre sostenuto l'ingegnosità che ha accompagnato nel passato la nostra Nazione e ciò che sorprende è proprio il fatto che il nostro Paese non riesca più a metterla in luce!
Non si avvisa più un impegno di ricerca verso la genialità e le idee, ma si continua a perseverare succubi di una esterofilia e di un pragmatismo economico oltre ogni limite: Questo è.. in buona parte..ciò che impedisce da diversi anni il cammino in salita del nostro Paese.
La riflessione di Domenico Cacopardo è, perciò, fin troppo giusta e tocca un tema troppe volte affrontato:- Senza ingegno non c'è qualità.. e senza qualità sparisce l'essenziale energia che dà forza al nostro Paese ..

Non bisogna farsi dirigere da un'economia..ma guidare l'economia..non bisogna sottomettersi ad un regime di fiscalità.. ma indirizzare in modo equilibrato il fisco! L'uomo politico capace dovrebbe imporsi e reagire e.. non rimanere succube ed incollato al barroccio di un sistema senza condurne la guida: non è proprio di determinismo che si ha bisogno, ma di carattere, forza d'animo e volontà!

Quello a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni è stato, oltre ad una vera incapacità di far politica di chi non ha saputo leggere in lungimiranza, la sottomissione oltre limite a parametri economici e principi fiscali che hanno completamente offuscato ogni altro cammino in direzione di una crescita qualitativa. 

Mi permetto di far osservare al cugino consigliere Cacopardo che questo è avvenuto anche nel campo delle riforme politiche.. dove si è pensato stoltamente che, riducendo al massimo e semplificando ogni problematica, si potesse risolvere il nodo dell'andazzo politico-istituzionale. Ricordiamoci che tutto il nostro sistema sociale parte dalla politica e che... se il metodo rimane quello di semplificare come principio comune, non ci possiamo poi aspettare... nessun risultato qualitativo.

Ma è soprattutto quello che Domenico scrive in riferimento ai "ruoli" che attira la mia attenzione: “Nella ricostruzione di cui avremmo necessità, l’imprenditore dovrebbe fare l’imprenditore, lo Stato lo Stato e il pubblico ministero svolgere le inchieste necessarie per consegnare al giudice elementi di giudizio”.Un dialogo già diverse volte affrontato dal sottoscritto che dovrebbe spingere alla ricerca di un più ragionevole processo sulle differenti funzioni istituzionali: Una più distinta differenziazione dei ruoli in politica...rimane la base di partenza di un principio per mettere meglio a fuoco gli aspetti qualitativi e far eccellere chi nel campo merita.
Vincenzo cacopardo



Riflettendo sui nostri giorni, appare evidente che stiamo vivendo il dopoguerra di una guerra ancora in corso. Una guerra perduta, naturalmente, visto il regresso del Pil e il deperimento del Paese certificato dai fondamentali dopo sette anni di crisi.
In fondo, c’è anche stato un 25 luglio (1943 caduta di Mussolini e del fascismo) e si è verificato tra il luglio e il novembre 2011, tra la stretta dell’Unione nei nostri confronti, la dichiarazione golpista del duo Trichet-Draghi, le dimissioni di Berlusconi e la nomina di un «commissario straordinario» gradito ad Angela Merkel, Mario Monti. L’unica fondamentale differenza tra il «dopo 25 luglio» e il «dopo novembre 2011» sta nel fatto che il partito rimosso dal governo, il Popolo della libertà, ha partecipato alla maggioranza parlamentare che ha sostenuto il gabinetto Monti.
Come se, dopo il 25 luglio 1943, il governo Badoglio fosse stato sostenuto anche dal partito nazionale fascista e avesse avuto, al suo interno, ministri indicati da Mussolini.
Questo sostanziale continuismo, dispetto dell’austerità di Monti e delle sue leggi ispirate dall’Unione europea, segna, invece, una indiscutibile similitudine col continuismo post-fascista. L’epurazione (una barzelletta) e l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti consentirono al personale della pubblica Amministrazione forgiatosi nel deprecato ventennio di continuare a gestire la cosa pubblica con le leggi e i comportamenti del passato. Ovviamente, mano a mano che si andava avanti, la legislazione veniva aggiornata alle esigenze dell’impianto costituzionale democratico e venivano introdotti istituti che presidiavano in modo irreversibile la nuova condizione civile e politica. Innanzi tutto, il Consiglio superiore della magistratura che, da organo consultivo del governo, costituitosi nel 1907, diventa nel 1958 organo di autogoverno, garanzia dell’indipendenza dell’istituzione e dei suoi singoli componenti. E, subito dopo, la controversa (ormai) realizzazione delle regioni (1970).
Ora, se stiamo uscendo da una guerra (perduta), occorrerebbero governi e governanti consapevoli della situazione e votati all’avvio di una legislazione di emergenza per la ricostruzione.
Già, la ricostruzione.
Si trattò di una grande operazione pubblica e privata nella quale milioni di italiani furono impegnati per un decennio, riuscendo non solo a restituire al Paese le strutture fisiche ed economiche di prima della guerra ma a mettere anche le basi di quello che nel 1960 fu definito il «miracolo economico italiano», anticipatore di quello tedesco. In diversi campi, l’Italietta del dopo guerra seppe mettere le vele al vento e correre insieme alle nazioni più avanzate. Pensiamo alla rete autostradale, costruita ben prima di quella francese, pensiamo all’energia nucleare, per la quale con il Cnen, presieduto da uno scienziato di chiara fama internazionale come il prof. Felice Ippolito, ci insediammo all’avanguardia, pensiamo alla cantieristica, alla siderurgia con il terzo centro (Taranto) con la progettazione di un quarto (Gioia Tauro) e l’idea di un quinto (Belice). Pensiamo al business energetico dell’Eni dello spregiudicato capitano d’industria Enrico Mattei, e all’aeronautica, in collaborazione con le aziende americane e per merito degli elicotteri Agusta.
Un fervore generale accompagnò, quindi, la visione dei governanti trasformando quegli anni in una specie di corsa all’oro del West, liberi da lacci e lacciuoli, capaci di esprimere tutte le potenzialità che l’ingegno italiano aveva in sé da sempre. Tanto che la meccanica italiana era diventata un plus in tutti i mercati internazionali, giacché coniugava costi contenuti, manutenzioni facili e prestazioni eccellenti.
Su questo punto, oggi, non ci sono somiglianze, anzi viviamo l’emergenza e il percorso di ripresa in modo completamente opposto.
Un solo esempio per tutti: il decreto legislativo 8 giugno 2001 n° 231, che ha stabilito le responsabilità da attribuire agli amministratori di società private ed enti per i reati commessi dagli amministratori. Da allora, al ritmo di uno o due reati l’anno, tutto lo scibile penale è finito nel medesimo calderone, aggravando il peso e il costo di una gestione burocratica degli eventi delittuosi che possono coinvolgere gli amministratori medesimi.
In sostanza, lo Stato italiano s’è comportato nella materia dei reati in modo simile alla fiscalità. Per il fisco, il datore di lavoro è un sostituto d’imposta, nel senso che deve applicare in ritenuta la tassazione del dipendente. Dalla 231 in poi, lo Stato è andato imponendo all’imprenditoria italiana una serie di cautele, di comportamenti, di procedure volti a sostituire l’impresa allo Stato nella puntuale prevenzione di fatti di rilevanza penale.
I costi dell’operazione sono significativi e molto.
Anche perché il sistema introdotto ha stabilito, di fatto, un’inversione dell’obbligo di prova, trasferendolo dal pubblico ministero all’impresa un componente della quale sia indagato. Un’operazione chiaramente incostituzionale.
Il paradosso è che è stata proprio la Confindustria di questo quindicennio a sostenere, con l’aiuto di uno sterminato corpo di consulenti, l’allargamento costante degli ambiti della 231, nell’illusoria presunzione che questo sistema possa attenuare l’attenzione e la perseguibilità delle fattispecie di reato che fossero, anche inconsapevolmente, poste in essere.
Nella ricostruzione di cui avremmo necessità, invece, l’imprenditore dovrebbe fare l’imprenditore, lo Stato lo Stato e il pubblico ministero svolgere le inchieste necessarie per consegnare al giudice elementi di giudizio.
La confusione dei ruoli, insieme a una caotica congerie di norme statali, regionali e comunali, gestite da cacicchi e «gauleiter» ottusi o corrotti, spesso ottusi e corrotti, si frappone a quello slancio che, latente, potrebbe animare la ripresa dell’Italia.
Domenico Cacopardo


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