Ho sempre sostenuto l'ingegnosità che ha accompagnato nel passato la
nostra Nazione e ciò che sorprende è proprio il fatto che il nostro Paese non riesca più a metterla in
luce!
Non si avvisa più un impegno di ricerca verso la
genialità e le idee, ma si continua a perseverare succubi di una
esterofilia e di un pragmatismo economico oltre ogni limite: Questo
è.. in buona parte..ciò che impedisce da diversi anni il cammino in
salita del nostro Paese.
La
riflessione di Domenico Cacopardo è, perciò, fin troppo giusta e
tocca un tema troppe volte affrontato:- Senza ingegno non c'è
qualità.. e senza qualità sparisce l'essenziale energia che dà forza al
nostro Paese ..
Non bisogna
farsi dirigere da un'economia..ma guidare l'economia..non bisogna
sottomettersi ad un regime di fiscalità.. ma indirizzare in modo
equilibrato il fisco! L'uomo politico capace dovrebbe imporsi e reagire e.. non rimanere succube ed incollato al barroccio di un sistema senza condurne la guida: non è proprio di determinismo che si ha bisogno, ma di carattere, forza d'animo e volontà!
Quello a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni è stato, oltre ad una vera incapacità di far politica di chi non ha saputo leggere in lungimiranza, la sottomissione oltre limite a parametri economici e principi fiscali che hanno completamente offuscato ogni altro cammino in direzione di una crescita qualitativa.
Mi permetto
di far osservare al cugino consigliere Cacopardo che questo è avvenuto anche
nel campo delle riforme politiche.. dove si è pensato stoltamente
che, riducendo al massimo e semplificando ogni problematica, si
potesse risolvere il nodo dell'andazzo politico-istituzionale. Ricordiamoci che
tutto il nostro sistema sociale parte dalla politica e che... se il
metodo rimane quello di semplificare come principio comune, non ci
possiamo poi aspettare... nessun risultato qualitativo.
Ma è
soprattutto quello che Domenico scrive in riferimento ai "ruoli" che attira la mia attenzione: “Nella
ricostruzione di cui avremmo necessità, l’imprenditore dovrebbe
fare l’imprenditore, lo Stato lo Stato e il pubblico ministero
svolgere le inchieste necessarie per consegnare al giudice elementi
di giudizio”.Un
dialogo già diverse volte affrontato dal sottoscritto che dovrebbe
spingere alla ricerca di un più ragionevole processo sulle
differenti funzioni istituzionali: Una più distinta
differenziazione dei ruoli in politica...rimane la base di
partenza di un principio per mettere meglio a fuoco gli aspetti
qualitativi e far eccellere chi nel campo merita.
Vincenzo
cacopardo
Riflettendo
sui nostri giorni, appare evidente che stiamo vivendo il dopoguerra
di una guerra ancora in corso. Una guerra perduta, naturalmente,
visto il regresso del Pil e il deperimento del Paese certificato dai
fondamentali dopo sette anni di crisi.
In fondo,
c’è anche stato un 25 luglio (1943 caduta di Mussolini e del
fascismo) e si è verificato tra il luglio e il novembre 2011, tra la
stretta dell’Unione nei nostri confronti, la dichiarazione golpista
del duo Trichet-Draghi, le dimissioni di Berlusconi e la nomina di un
«commissario straordinario» gradito ad Angela Merkel, Mario Monti.
L’unica fondamentale differenza tra il «dopo 25 luglio» e il
«dopo novembre 2011» sta nel fatto che il partito rimosso dal
governo, il Popolo della libertà, ha partecipato alla maggioranza
parlamentare che ha sostenuto il gabinetto Monti.
Come se,
dopo il 25 luglio 1943, il governo Badoglio fosse stato sostenuto
anche dal partito nazionale fascista e avesse avuto, al suo interno,
ministri indicati da Mussolini.
Questo
sostanziale continuismo, dispetto dell’austerità di Monti e delle
sue leggi ispirate dall’Unione europea, segna, invece, una
indiscutibile similitudine col continuismo post-fascista.
L’epurazione (una barzelletta) e l’amnistia voluta da Palmiro
Togliatti consentirono al personale della pubblica Amministrazione
forgiatosi nel deprecato ventennio di continuare a gestire la cosa
pubblica con le leggi e i comportamenti del passato. Ovviamente, mano
a mano che si andava avanti, la legislazione veniva aggiornata alle
esigenze dell’impianto costituzionale democratico e venivano
introdotti istituti che presidiavano in modo irreversibile la nuova
condizione civile e politica. Innanzi tutto, il Consiglio superiore
della magistratura che, da organo consultivo del governo,
costituitosi nel 1907, diventa nel 1958 organo di autogoverno,
garanzia dell’indipendenza dell’istituzione e dei suoi singoli
componenti. E, subito dopo, la controversa (ormai) realizzazione
delle regioni (1970).
Ora, se
stiamo uscendo da una guerra (perduta), occorrerebbero governi e
governanti consapevoli della situazione e votati all’avvio di una
legislazione di emergenza per la ricostruzione.
Già, la
ricostruzione.
Si trattò
di una grande operazione pubblica e privata nella quale milioni di
italiani furono impegnati per un decennio, riuscendo non solo a
restituire al Paese le strutture fisiche ed economiche di prima della
guerra ma a mettere anche le basi di quello che nel 1960 fu definito
il «miracolo economico italiano», anticipatore di quello tedesco.
In diversi campi, l’Italietta del dopo guerra seppe mettere le vele
al vento e correre insieme alle nazioni più avanzate. Pensiamo alla
rete autostradale, costruita ben prima di quella francese, pensiamo
all’energia nucleare, per la quale con il Cnen, presieduto da uno
scienziato di chiara fama internazionale come il prof. Felice
Ippolito, ci insediammo all’avanguardia, pensiamo alla
cantieristica, alla siderurgia con il terzo centro (Taranto) con la
progettazione di un quarto (Gioia Tauro) e l’idea di un quinto
(Belice). Pensiamo al business energetico dell’Eni dello
spregiudicato capitano d’industria Enrico Mattei, e
all’aeronautica, in collaborazione con le aziende americane e per
merito degli elicotteri Agusta.
Un fervore
generale accompagnò, quindi, la visione dei governanti trasformando
quegli anni in una specie di corsa all’oro del West, liberi da
lacci e lacciuoli, capaci di esprimere tutte le potenzialità che
l’ingegno italiano aveva in sé da sempre. Tanto che la meccanica
italiana era diventata un plus in tutti i mercati internazionali,
giacché coniugava costi contenuti, manutenzioni facili e prestazioni
eccellenti.
Su questo
punto, oggi, non ci sono somiglianze, anzi viviamo l’emergenza e il
percorso di ripresa in modo completamente opposto.
Un solo
esempio per tutti: il decreto legislativo 8 giugno 2001 n° 231, che
ha stabilito le responsabilità da attribuire agli amministratori di
società private ed enti per i reati commessi dagli amministratori.
Da allora, al ritmo di uno o due reati l’anno, tutto lo scibile
penale è finito nel medesimo calderone, aggravando il peso e il
costo di una gestione burocratica degli eventi delittuosi che possono
coinvolgere gli amministratori medesimi.
In
sostanza, lo Stato italiano s’è comportato nella materia dei reati
in modo simile alla fiscalità. Per il fisco, il datore di lavoro è
un sostituto d’imposta, nel senso che deve applicare in ritenuta la
tassazione del dipendente. Dalla 231 in poi, lo Stato è andato
imponendo all’imprenditoria italiana una serie di cautele, di
comportamenti, di procedure volti a sostituire l’impresa allo Stato
nella puntuale prevenzione di fatti di rilevanza penale.
I costi
dell’operazione sono significativi e molto.
Anche
perché il sistema introdotto ha stabilito, di fatto, un’inversione
dell’obbligo di prova, trasferendolo dal pubblico ministero
all’impresa un componente della quale sia indagato. Un’operazione
chiaramente incostituzionale.
Il
paradosso è che è stata proprio la Confindustria di questo
quindicennio a sostenere, con l’aiuto di uno sterminato corpo di
consulenti, l’allargamento costante degli ambiti della 231,
nell’illusoria presunzione che questo sistema possa attenuare
l’attenzione e la perseguibilità delle fattispecie di reato che
fossero, anche inconsapevolmente, poste in essere.
Nella
ricostruzione di cui avremmo necessità, invece, l’imprenditore
dovrebbe fare l’imprenditore, lo Stato lo Stato e il pubblico
ministero svolgere le inchieste necessarie per consegnare al giudice
elementi di giudizio.
La
confusione dei ruoli, insieme a una caotica congerie di norme
statali, regionali e comunali, gestite da cacicchi e «gauleiter»
ottusi o corrotti, spesso ottusi e corrotti, si frappone a quello
slancio che, latente, potrebbe animare la ripresa dell’Italia.
Domenico
Cacopardo
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