Oggi, si
capirà qualcosa di più, rispetto a ciò che s’è capito su Roma e
sul suo sindaco Ignazio Marino. Un professore universitario che, per
ragioni mai esplicitate, ha abbandonato l’ambito ruolo di capo di
dipartimento in un centro ospedaliero americano (Philadelphia) per
abbracciare la politica e il Pd.
Ma già è
emerso abbastanza, soprattutto nell’ultimo week-end.
Infatti,
sembra chiaro agli addetti lavori che lo scontro in corso non è tra
Renzi e Marino, ma tra Renzi e Orfini, il giovanissimo presidente del
Pd, commissario del partito romano.
Quando è
esploso il caso Roma, Orfini, capo di una delle frazioni exDS,
alleato di Renzi, è stato incaricato di mettere a posto il partito
della capitale, investito, come il comune, dalla tempesta denominata
«Mafia capitale», consistita in una raffica di arresti, di avvisi
di garanzia e di sospensioni dagli incarichi pubblici.
La «ratio»
e i limiti della scelta di Orfini come risanatore del partito,
risiedeva nel suo essere espressione diretta e (relativamente) nuova
della realtà capitolina, dopo esperienze di base compiute nella
storica sezione Prati e un’elezione in Parlamento ottenuta proprio
a Roma.
I limiti
della scelta erano costituiti proprio dalla stretta correlazione tra
il commissario e il mondo politico che doveva «normalizzare».
Sostengono
molti che Orfini s’è mosso bene, coinvolgendo nell’analisi dei
vizi del sistema delle sezioni di Fabrizio Barca, figlio di un
importante dirigente comunista, estraneo però al partito e al suo
tran-tran romano.
La vicenda
ha, però, preso una brutta svolta quando Renzi s’è azzardato a
dichiarare –più o meno- che Ignazio Marino era giunto al
capolinea.
Orfini ha
reagito immediatamente e ha cominciato a spendersi in favore del
discusso sindaco, allo scopo dichiarato ed evidente di sostenere
l’amministrazione in essere rinviando il più possibile un
appuntamento elettorale che per il Pd potrebbe significare una
clamorosa sconfitta.
Probabilmente,
il primo ministro non s’è subito reso conto che si stava
innescando un confronto nel quale la testa in palio non era, appunto,
quella di Marino, ma la sua, dato che se le sue imprudenti
dichiarazioni non avessero avuto effetto, nell’ircocervo
democratico, un po’ exPci, un po’ exDc, la sua autorità e,
peggio, la sua autorevolezza avrebbero subito un drastico tracollo.
Tale, in definitiva, di riaggregare, intorno a Orfini, tutte le
minoranze interne e, soprattutto, la palude degli incerti, accorsi in
soccorso del vincitore Renzi, ma pronti a mollarlo se un altro uomo
forte, con serie possibilità di «vincere» il partito fosse emerso.
È quindi
vitale, per comprendere cosa accadrà in politica nei prossimi sei
mesi, osservare quale sarà l’evoluzione del caso Roma e vedere se,
col sostegno di Orfini, Marino sopravviverà o altrimenti crollerà,
lasciando il campo ai renziani di tutte le ore.
Sullo
sfondo, ma non tanto, c’è la figura di Franco Gabrielli, prefetto
di Roma e autorità cui competeva tirare le somme di un’inchiesta
amministrativa attivata subito dopo il manifestarsi dello scandalo.
Con la
cautela del funzionario consumato (e del politico capace di sceverare
gli interessi in campo), Gabrielli ha trasmesso al ministro degli
interni una relazione che non poteva non contrariare il suo sponsor
Renzi.
Se,
infatti, quest’ultimo si attendeva un rapporto esplosivo tale da
giustificare il commissariamento del comune, si sbagliava. La
relazione Gabrielli, pur evidenziando le magagne capitoline,
sosteneva che Marino era al di fuori del malgoverno e della
corruzione. Del che nessuno, in verità, dubitava.
Ciò che la
città imputa al suo sindaco è invece un atteggiamento ondivago,
incapace di scegliere cosa fare e con quale urgenza, come disporre e
realizzare un’ampia purga della dirigenza, insomma quel cambio di
passo che era lecito attendersi dopo la devastante esperienza
Alemanno.
Perciò, in
questa partita che si gioca su più tavoli contemporanei, occorrerà
che l’inchiesta e il rapporto Gabrielli trovino la conclusione
politica amministrativa che sembra profilarsi: censure aspre che non
investono il sindaco e rendono impossibile il
commissiariamento.
Insomma, Gabrielli ha mostrato al presidente
del consiglio che la realtà non può essere forzata per aiutarlo a
realizzare i propri desideri politici e che la pubblica funzione
attribuitagli sarà esercitata «ratio veritatis» non secondo la sua
utilità.
Almeno, a
oggi, queste sembrano le coordinate con cui si può valutare lo stato
dell’arte. Coordinate non felici per la politica (azzardata) di
Renzi.
In questo
gioco, allo stesso tempo raffinato e cinico, chi ci rimette è Roma.
Sono i romani. Alle prese con un’amministrazione inesistente,
talmente legata al passato (a dispetto delle affermazioni della
relazione Gabrielli) da suggerire all’assessore al bilancio Silvia
Scorzese di motivare le proprie dimissioni con (tra l’altro) il
permanere dell’andazzo di affidare direttamente, senza gara,
forniture e lavori. Infatti, secondo la dimissionaria, gli uffici
romani lasciano tranquillamente scadere i termini per avviare le
procedure concorsuali, in modo da essere legittimati a disporre la
continuazione dei vecchi contratti dei vecchi appaltatori.
C’è un
particolare inquietante: se è vero (e non c’è ragione di
dubitare) ciò che sostiene la dottoressa Scorzese, avremmo una
evidente smentita dell’affermazione che, con Marino, sarebbe
cessato il vecchio andazzo.
Insomma, un
pasticcio inestricabile, nel quale le furbizie prevalgono sulle
esigenze della città.
Domenico
Cacopardo
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