La legge di
stabilità, vista nel suo complesso, è un bicchiere mezzo pieno,
anzi più pieno che vuoto. Quello che manca, gravemente, è un vero e
serio intervento sul fronte delle uscite, un taglio che ridefinisca,
limitandolo, il perimetro statuale, restituendo funzioni e attività
ai privati e alla loro iniziativa.
Quest’assenza
non incide soltanto sul giudizio della legge, ma ha effetti frenanti
su tutto il processo di rinnovamento avviato da Renzi, nonostante
contraddizioni e difficoltà.
Un semplice
esempio: l’accorpamento dei piccoli comuni vale 3 miliardi di euro
di spesa risparmiata. È vero che costerebbe la messa a riposo di
alcune decine di migliaia di consiglieri comunali e sindaci (tutti
retribuiti) in gran parte appartenenti al sistema Pd e, quindi,
colpirebbero i numeri del consenso di cui gode Matteo Renzi. Ma è
anche vero che inciderebbe su un tessuto partitico che, in giro per
l’Italia, è sclerotizzato e tende a perpetuare un sistema di
piccoli, ma costosi privilegi.
E così
tante altre partite, compresa la radicale, inflessibile applicazione
dei costi standard, che ancora rimane nel limbo delle tendenze senza
entrare nel campo delle realizzazioni rivoluzionarie. Già, si
tratterebbe di una vera rivoluzione, visto che colpirebbe gli
extracosti comunali e sanitari, tutti causa ed effetto della
corruzione politica diffusa.
C’è,
però, del pieno, in questa legge. Si tratta della riduzione del
carico fiscale, che, nell’insieme, vale poco, ma si tratta di un
settore in cui (in assenza di tagli decisi delle uscite) si può
procedere solo per decimali. E ci sono tante misure di sostegno
produttivo e di soccorso sociale.
La
sensazione è che il primo ministro abbia tenuto soprattutto presente
che il 2016 è anno di elezioni in alcuni grandi comuni (Milano,
Napoli, Torino, forse Roma, vista la commedia kafkiana messa in scena
da Ignazio Marino) e di referendum e che, quindi, abbia voluto
connotare il principale appuntamento politico-economico della nazione
in senso elettoralistico. In modo da mantenere, consolidare e,
possibilmente, ampliare il consenso del governo.
Già,
perché è il governo la fonte e il fine della politica attuale: il
Pd, la forza di cui è espressione, si è praticamente dissolto nel
territorio nazionale, diventando partito dei parlamentari, non più
di militanti e di insediamento sociale. Insomma la fine del partito
di massa, figlio del primo Novecento.
Rimane in
piedi nel sistema mediatico, una guerra a questa legge condotta per
motivi ideologici a scapito dei contenuti effettivi.
L’idea è
che l’attenuazione del carico fiscale sia una misura
«berlusconiana», cioè di destra, quando si tratta di un’esigenza
fisiologica del sistema Italia, necessaria per sopravvivere e
coltivare una speranza di ripresa effettiva.
La legge di
stabilità, comunque, passerà nei termini in cui è stata definita.
Comuni e
regioni, che non potranno aumentare imposte e tasse, dovranno fare
una leggera cura dimagrante: come sempre non toccheranno gli apparati
burocratici e le aziende partecipate, pascolo del generone dei
politicanti, ma faranno pagare il conto ai cittadini, in particolare
agli indigenti (supremo cinismo dell’amministratore locale).
Come
sempre.
Domenico
Cacopardo
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