23 ott 2015

Una nota di Domenico Cacopardo sulla legge di stabilità

La legge di stabilità, vista nel suo complesso, è un bicchiere mezzo pieno, anzi più pieno che vuoto. Quello che manca, gravemente, è un vero e serio intervento sul fronte delle uscite, un taglio che ridefinisca, limitandolo, il perimetro statuale, restituendo funzioni e attività ai privati e alla loro iniziativa.
Quest’assenza non incide soltanto sul giudizio della legge, ma ha effetti frenanti su tutto il processo di rinnovamento avviato da Renzi, nonostante contraddizioni e difficoltà.
Un semplice esempio: l’accorpamento dei piccoli comuni vale 3 miliardi di euro di spesa risparmiata. È vero che costerebbe la messa a riposo di alcune decine di migliaia di consiglieri comunali e sindaci (tutti retribuiti) in gran parte appartenenti al sistema Pd e, quindi, colpirebbero i numeri del consenso di cui gode Matteo Renzi. Ma è anche vero che inciderebbe su un tessuto partitico che, in giro per l’Italia, è sclerotizzato e tende a perpetuare un sistema di piccoli, ma costosi privilegi.
E così tante altre partite, compresa la radicale, inflessibile applicazione dei costi standard, che ancora rimane nel limbo delle tendenze senza entrare nel campo delle realizzazioni rivoluzionarie. Già, si tratterebbe di una vera rivoluzione, visto che colpirebbe gli extracosti comunali e sanitari, tutti causa ed effetto della corruzione politica diffusa.
C’è, però, del pieno, in questa legge. Si tratta della riduzione del carico fiscale, che, nell’insieme, vale poco, ma si tratta di un settore in cui (in assenza di tagli decisi delle uscite) si può procedere solo per decimali. E ci sono tante misure di sostegno produttivo e di soccorso sociale.
La sensazione è che il primo ministro abbia tenuto soprattutto presente che il 2016 è anno di elezioni in alcuni grandi comuni (Milano, Napoli, Torino, forse Roma, vista la commedia kafkiana messa in scena da Ignazio Marino) e di referendum e che, quindi, abbia voluto connotare il principale appuntamento politico-economico della nazione in senso elettoralistico. In modo da mantenere, consolidare e, possibilmente, ampliare il consenso del governo.
Già, perché è il governo la fonte e il fine della politica attuale: il Pd, la forza di cui è espressione, si è praticamente dissolto nel territorio nazionale, diventando partito dei parlamentari, non più di militanti e di insediamento sociale. Insomma la fine del partito di massa, figlio del primo Novecento.
Rimane in piedi nel sistema mediatico, una guerra a questa legge condotta per motivi ideologici a scapito dei contenuti effettivi.
L’idea è che l’attenuazione del carico fiscale sia una misura «berlusconiana», cioè di destra, quando si tratta di un’esigenza fisiologica del sistema Italia, necessaria per sopravvivere e coltivare una speranza di ripresa effettiva.
La legge di stabilità, comunque, passerà nei termini in cui è stata definita.
Comuni e regioni, che non potranno aumentare imposte e tasse, dovranno fare una leggera cura dimagrante: come sempre non toccheranno gli apparati burocratici e le aziende partecipate, pascolo del generone dei politicanti, ma faranno pagare il conto ai cittadini, in particolare agli indigenti (supremo cinismo dell’amministratore locale).
Come sempre.

Domenico Cacopardo

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