In questo attento articolo l'amico Paolo spiega la sua analisi sulle riforme mancate della giustizia. A suo dire persino negate..anche se auspicate, che provocano un inarrestabile conflitto..non aiutando il percorso di una sana giustizia...inficiando la certezza del diritto ed in qualche modo.. responsabilizzando la politica.
La
vicenda che riguarda le intercettazioni “sfuggite” nel corso di
un’inchiesta e che ha reso pubblici alcuni apprezzamenti poco
diplomatici da parte di esponenti del mondo giudiziario contro l’ex
ministro Salvini ripropone nel modo peggiore l’irrisolto
fisiologico contrasto tra i principali attori della vita
istituzionale del nostro Paese.
Ed
il puntuale diffuso appello che ne è conseguito è quello di attuare
al più presto adeguate riforme che possano rendere più sicuro ed
efficace l’esercizio delle rispettive funzioni a ciascuno
attribuite in assoluta autonomia ed indipendenza. Le “ennesime”
riforme, tutte annunciate, tutte auspicate, tutte negate. Negate a
chi le vuole veramente, a chi tiene parecchio alla tenuta del
sistema, nella consapevolezza che la precarietà degli equilibri tra
le fondamenta di esso stesso non ha mai portato nulla di buono,
specie in alcune fasi temporali il cui ricordo è meglio mantenere
solo per fini storici. E purtroppo non è sufficiente neanche lo
straordinario permanere della efficacia e della attualità del nostro
testo costituzionale a contrastare quella che preferiamo chiamare,
realisticamente, la “debolezza” dei poteri.
Debolezza
costituita dalla presa d’atto di quella vulnerabilità che lede
l’autorevolezza ed il prestigio stesso dei soggetti coinvolti e
dell’Autorità impersonale che incarnano, dando seguito ad un quasi
naturale desiderio di prevaricazione reciproca, che annulla con
modalità praticamente algebrica il ruolo di ciascuno.
Il
caso più comune è quello che vede l’infausto quanto sinora
inevitabile conflitto tra potere giudiziario e potere politico,
laddove per quest’ultimo vale la pena di unificare la componente
legislativa con quella esecutiva. Nel caso specifico, vi è un
magistrato- già indagato e sospeso per presunte irregolarità
commesse nell’esercizio delle sue funzioni nonché ex componente
del CSM – che “giudica”, con termini ben lontani dai codici
vigenti, un ministro – ora anch’egli non più esercente la sua
funzione pubblica – conferendo telefonicamente proprio con il
collega togato che lo sta inquisendo.
Ma,
al di là di questo recente episodio, potremmo citare tutti gli
innumerevoli simmetrici tentativi di “controllo” da posizione
privilegiata di membri del Governo o del Parlamento su magistrati,
soprattutto del settore requirente.
Valutando
quello che si può ormai definire un vero e proprio fenomeno connesso
alla natura dell’uomo che viene chiamato a ricoprire una pubblica
carica, in termini politico-filosofici possiamo dire che il criterio
“homo homini lupus” non ha tempo.
Ma
qui ed ora è meglio lasciare isolata questa dissertazione teorica,
ritornando al problema reale da risolvere. Quam remedium? L’appello
al Capo dello Stato è certamente legittimo ed adeguato; e tuttavia
diventa improprio quando esso ha più l’aria di una critica che
attiene alla politica contingente o, peggio, di un richiamo nei
confronti di quest’ultimo alle sue responsabilità.
Qualche
ultima considerazione: la politica, male necessario della democrazia
contemporanea, gioia e tormento di chi la esercita sia di chi la
subisce che di chi se ne avvantaggia, è una sorta di piovra che
contrasta essa stessa la separazione dei ruoli e dei poteri. Lo
confermano le annunciate dimissioni della “componente” ANM
(Associazione Nazionale Magistrati) del Consiglio Superiore della
Magistratura. Infatti, si potrà far notare legittimamente ai
magistrati che le correnti politiche all’interno del loro organo di
autogoverno sono già di per sé qualcosa che ne altera profondamente
la natura istituzionale?
Estendendo
la “quaestio”, al solo fine di indurre a comune riflessione in
attesa del prossimo scontro, come rendere formalmente e
sostanzialmente indipendente il “giudiziario” Pubblico Ministero
dall’”esecutivo” Ministro della Giustizia ?
Atteso
che i magistrati dovrebbero rispondere solo al CSM, come si inquadra
coerentemente e con autorevole certezza del diritto la prevista
attività ispettiva esercitabile dal Ministro sopracitato? E ancora:
perché si ripete spesso puntuale il reclamo della titolarità di una
inchiesta da parte di magistrati e procure ordinarie allorquando la
competenza di inquisire un membro dell’Esecutivo nell’esercizio
delle sue funzioni è manifestamente da attribuire al Tribunale dei
Ministri?
E’
la “debolezza” dei poteri (sic!).
Paolo
Speciale
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