La nostra terra del sud ha vissuto questo settennato con un grande orgoglio, consapevole “a priori” dello stile e della sagacia con cui l’ennesimo proprio figlio asceso alla vita pubblica avrebbe tanto donato al Paese, da Lampedusa a Bolzano, nel segno dell’unità, non solo geografica, specie in tempi difficili.
Un rappresentante dell’unità nazionale in cui autorevolezza, eleganza e specifica competenza di natura giuridico-istituzionale non sono mai state disgiunte da una diffusa e palpabile popolarità, che tanto ha anche giovato ad un PD all’epoca fortemente renziano, che nel 2015 lo aveva praticamente incoronato senza difficoltà in quella dimensione ideologica gravitazionale – il centro - rimasta dopo diversi decenni fulcro, al netto di contingenti e passeggeri populismi, della scena politica italiana.
Quel “centro” presente, a “destra”, come certificato di garanzia centrale del liberismo imprenditoriale; ancora, nonché dove la cosiddetta “moderazione”, spostandoci a “sinistra”, si coniuga oggi idealmente con le numerose e predominanti anime cattoliche ivi migrate; una sinistra peraltro già scientificamente, oltre che strategicamente per il principio universale di sopravvivenza e di autoconservazione, connessa, suo malgrado, con altre espressioni politiche di ispirazione diversa, ormai solo storicamente.
C’è chi si preoccupa, oggi, pur nel compiacimento indotto dalla azione di un Esecutivo autorevole e per così dire di “solidarietà nazionale”, della assenza di fatto e di diritto di quella opposizione intesa come soggetto agente in quella libera concorrenza di cui deve necessariamente beneficiare nella conquista dei consensi, esercitando così quel precipuo diritto della democrazia.
Quasi che una situazione di emergenza, come ad esempio una pandemia mondiale, potesse costituire un fenomeno così “maior” da rendere “minor” la dialettica del gioco delle parti.
E forse la delicatezza del momento, che degenera effettivamente in pericolosa confusione intellettuale, è proprio questa. Ce ne danno prova, ad esempio, le varie e per certi versi improbabili candidature, enunciate come numeri al gioco della roulette, del prossimo Capo dello Stato, anche in nome di un anacronistico e meramente utilitaristico, in termini emozional-popolari, “patriottismo”.
Certo, si tratta dell’evento istituzionale in cui, proprio per la sua strutturazione voluta dai Padri costituenti, i cosiddetti “gruppi di pressione” vivono il loro più intenso momento di gloria.
Ma, di contro, si tratta anche di dover comprendere che, talvolta, maggioranza ed opposizione è meglio che non ci siano, senza che ciò generi pericolo per una sistema di sovranità popolare collaudato come il nostro.
E ciò può e deve accadere soltanto al periodico risveglio, presso tutte le forze politiche, della settennale “passione” per il Quirinale; sì, proprio perché l’arbitro che sarà scelto la assuma in sé e la rivolga tutta alla Nazione più bella del mondo, la nostra.
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