10 lug 2012

Analisi e osservazioni sulla Enciclica del Pontefice "DEUS CARITAS EST"


premessa

L’importanza di un sentimento come quello dell’amore viene stigmatizzato nell’enciclica del Pontefice Benedetto XVI : Deus Caritas est. 
Il messaggio contenuto viene espresso con grande senso di attualità in un mondo dove la forza di una globalizzazione ci spinge verso una naturale integrazione. Le mie valutazioni si esprimono pacatamente  ma anche con un senso più marcato verso la vita del singolo individuo indotto a relazionarsi con il mondo terreno da cui riesce a trarre piacere. 
Ma perché questa analisi sull’Enciclica ?..
Esaminare questo tema sembra fondamentale in termini sociali poichè, nel suo svolgimento, il Pontefice sottolinea il rilievo della carità cristiana che in sé racchiude l’importanza dell’amore verso il nostro prossimo. Nell’odierna ricerca di una vita in comune, il concetto di carità diventa primario in un percorso  di convivenza che ci vede affrontare un mondo sovrappopolato con le diverse tipologie di pensiero che finiscono con l’incidere anche sulla cultura politica.
In questa elaborazione, Benedetto XVI, pone un rilievo fondamentale dell'essere umano che, tendendo a separare lo spirito, finisce col perdere la propria dignità e rinnegandolo considera il corpo, come realtà esclusiva, smarrendo ugualmente la sua grandezza. 
v.cacopardo 



LETTERA ENCICLICA
DEUS CARITAS EST
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULL'AMORE CRISTIANO



INTRODUZIONE

1. “ Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui ” (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell'esistenza cristiana: “ Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto ”.

Abbiamo creduto all'amore di Dio — così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest'avvenimento con le seguenti parole: “ Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita eterna ” (3, 16). Con la centralità dell'amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d'Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. L'Israelita credente, infatti, prega ogni giorno con le parole del Libro del Deuteronomio, nelle quali egli sa che è racchiuso il centro della sua esistenza: “ Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze ” ( 6, 4-5). Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell'amore di Dio con quello dell'amore del prossimo, contenuto nel Libro del Levitico: “ Amerai il tuo prossimo come te stesso ” (19, 18; cfr Mc 12, 29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un “ comandamento ”, ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro.

Per questo nella mia prima Enciclica desidero parlare dell'amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri. Ecco così indicate le due grandi parti di questa Lettera, tra loro profondamente connesse. La prima avrà un'indole più speculativa, visto che in essa vorrei precisare — all'inizio del mio Pontificato — alcuni dati essenziali sull'amore che Dio, in modo misterioso e gratuito, offre all'uomo, insieme all'intrinseco legame di quell'Amore con la realtà dell'amore umano. La seconda parte avrà un carattere più concreto, poiché tratterà dell'esercizio ecclesiale del comandamento dell'amore per il prossimo.
In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell'odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto. Per questo nella mia prima Enciclica desidero parlare dell'amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri. Ecco così indicate le due grandi parti di questa Lettera, tra loro profondamente connesse. La prima avrà un'indole più speculativa, visto che in essa vorrei precisare — all'inizio del mio Pontificato — alcuni dati essenziali sull'amore che Dio, in modo misterioso e gratuito, offre all'uomo, insieme all'intrinseco legame di quell'Amore con la realtà dell'amore umano. La seconda parte avrà un carattere più concreto, poiché tratterà dell'esercizio ecclesiale del comandamento dell'amore per il prossimo. L'argomento si presenta assai vasto; una lunga trattazione, tuttavia, eccede lo scopo della presente Enciclica. È mio desiderio insistere su alcuni elementi fondamentali, così da suscitare nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all'amore divino.

PRIMA PARTE

L'UNITÀ DELL'AMORE
NELLA CREAZIONE
E NELLA STORIA DELLA SALVEZZA

Un problema di linguaggio

2. L'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi. Al riguardo, ci ostacola innanzitutto un problema di linguaggio. Il termine “ amore ” è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Anche se il tema di questa Enciclica si concentra sulla questione della comprensione e della prassi dell'amore nella Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa, non possiamo semplicemente prescindere dal significato che questa parola possiede nelle varie culture e nel linguaggio odierno.

Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della parola “ amore ”: si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell'amore per il prossimo e dell'amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati, però, l'amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all'essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge allora la domanda: tutte queste forme di amore alla fine si unificano e l'amore, pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima istanza è uno solo, o invece utilizziamo una medesima parola per indicare realtà totalmente diverse?

“ Eros ” e “ agape ” – differenza e unità

3. All'amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s'impone all'essere umano, l'antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all'amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape — gli scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all'amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell'amore che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell'amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall'illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio.[1] Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?

4. Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l'eros? Guardiamo al mondo pre- cristiano. I greci — senz'altro in analogia con altre culture — hanno visto nell'eros innanzitutto l'ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una “ pazzia divina ” che strappa l'uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d'importanza secondaria: “ Omnia vincit amor ”, afferma Virgilio nelle Bucoliche — l'amore vince tutto — e aggiunge: “ et nos cedamus amori ” — cediamo anche noi all'amore.[2] Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione “ sacra ” che fioriva in molti templi. L'eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino.

A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell'unico Dio, l'Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l'eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell'eros, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare l'ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la “ pazzia divina ”: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l'eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, “ estasi ” verso il Divino, ma caduta, degradazione dell'uomo. Così diventa evidente che l'eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all'uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell'esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende.

5. Due cose emergono chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione dell'eros nella storia e nel presente. Innanzitutto che tra l'amore e il Divino esiste una qualche relazione: l'amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall'istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell'eros, non è il suo “ avvelenamento ”, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza.

Ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell'essere umano, che è composto di corpo e di anima. L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. L'epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a Cartesio col saluto: “ O Anima! ”. E Cartesio replicava dicendo: “ O Carne! ”.[3] Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l'uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l'amore — l'eros — può maturare fino alla sua vera grandezza.

Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato a puro “ sesso ” diventa merce, una semplice “ cosa ” che si può comprare e vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell'uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L'apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l'uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l'eros vuole sollevarci “ in estasi ” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.

6. Come dobbiamo configurarci concretamente questo cammino di ascesa e di purificazione? Come deve essere vissuto l'amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei Cantici, uno dei libri dell'Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l'interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti d'amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l'amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare l'“ amore ”. Dapprima vi è la parola “ dodim ” — un plurale che esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola “ ahabà ”, che nella traduzione greca dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono “ agape ” che, come abbiamo visto, diventò l'espressione caratteristica per la concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza dell'amore che diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione nell'ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.

Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività — “ solo quest'unica persona ” — e nel senso del “ per sempre ”. L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è “ estasi ”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: “ Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà ” (Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in genere.

7. Le nostre riflessioni, inizialmente piuttosto filosofiche, sull'essenza dell'amore ci hanno ora condotto per interiore dinamica fino alla fede biblica. All'inizio si è posta la questione se i diversi, anzi opposti, significati della parola amore sottintendessero una qualche unità profonda o se invece dovessero restare slegati, l'uno accanto all'altro. Soprattutto, però, è emersa la questione se il messaggio sull'amore, a noi annunciato dalla Bibbia e dalla Tradizione della Chiesa, avesse qualcosa a che fare con la comune esperienza umana dell'amore o non si opponesse piuttosto ad essa. A tal proposito, ci siamo imbattuti nelle due parole fondamentali: eros come termine per significare l'amore “ mondano ” e agape come espressione per l'amore fondato sulla fede e da essa plasmato. Le due concezioni vengono spesso contrapposte come amore “ ascendente ” e amore “ discendente ”. Vi sono altre classificazioni affini, come per esempio la distinzione tra amore possessivo e amore oblativo (amor concupiscentiae – amor benevolentiae), alla quale a volte viene aggiunto anche l'amore che mira al proprio tornaconto.

Nel dibattito filosofico e teologico queste distinzioni spesso sono state radicalizzate fino al punto di porle tra loro in contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe l'amore discendente, oblativo, l'agape appunto; la cultura non cristiana, invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall'amore ascendente, bramoso e possessivo, cioè dall'eros. Se si volesse portare all'estremo questa antitesi, l'essenza del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell'esistere umano e costituirebbe un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso dell'esistenza umana. In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà “ esserci per ” l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l'uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr Gv 7, 37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l'amore di Dio (cfr Gv 19, 34).

I Padri hanno visto simboleggiata in vari modi, nella narrazione della scala di Giacobbe, questa connessione inscindibile tra ascesa e discesa, tra l'eros che cerca Dio e l'agape che trasmette il dono ricevuto. In quel testo biblico si riferisce che il patriarca Giacobbe in sogno vide, sopra la pietra che gli serviva da guanciale, una scala che giungeva fino al cielo, sulla quale salivano e scendevano gli angeli di Dio (cfr Gn 28, 12; Gv 1, 51). Colpisce in modo particolare l'interpretazione che il Papa Gregorio Magno dà di questa visione nella sua Regola pastorale. Il pastore buono, egli dice, deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel suo intimo, cosicché diventino sue: “ per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat ”.[4] San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che vien rapito in alto fin nei più grandi misteri di Dio e proprio così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti (cfr 2 Cor 12, 2-4; 1 Cor 9, 22). Inoltre indica l'esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo popolo. “ Dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti: intus in contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur ”.[5]

8. Abbiamo così trovato una prima risposta, ancora piuttosto generica, alle due domande su esposte: in fondo l'“ amore ” è un'unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l'una o l'altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano completamente l'una dall'altra, si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell'amore. E abbiamo anche visto sinteticamente che la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell'originario fenomeno umano che è l'amore, ma accetta tutto l'uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni. Questa novità della fede biblica si manifesta soprattutto in due punti, che meritano di essere sottolineati: l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo.



Analisi e valutazioni critiche

Fedele al tema dell’amore in senso cristiano, laico nei principi sociali, il tema dell’amore resta per me primario… vorrei, però, sottoporre alcune brevi valutazioni in proposito. Sono considerazioni che, per l’ovvia ristretta opportunità del lettore, non è possibile esprimere in modo più dilungato e preciso, ma tali, da poterne cogliere l’essenza.
Sulla parte introduttiva dell’enciclica, devo sottolineare che... è più che mai vicino alla mia natura.. pensare al nesso Amore-Dio. 
Il Pontefice, stigmatizza il fatto di come l’argomento si presenti abbastanza vasto mettendo in risalto” il desiderio di un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all’amore divino”. E prosegue asserendo che: ” non si può semplicemente prescindere dal significato che questa parola possiede nelle varie culture e nel linguaggio odierno”, spingendosi, quindi, ad approfondire questo tema in modo più semantico.  Pensieri ed asserzioni, che vanno oltre una visione classica della Chiesa Cattolica e che quindi trovano sicuramente un riscontro positivo in direzione di quanti, come me, agnostici ed, a volte prevenuti, hanno sempre visto l’ordine clericale troppo chiuso in se stesso rispetto a simili argomenti.
La distinzione che il Pontefice pone sul significato della parola amore, apre un nuovo dialogo che è la base di partenza importante del suo discorso per arrivare ad evidenziare la netta differenza tra eros ed agape (ossia tra l’amore passionale, fatto di prevalente carica erotica e quello che guarda all’amicizia ed al sentimento puro).  Differente significato che, per il Santo Padre, vede poi tradursi in un’unica intimità tra corpo ed anima.
Naturalmente, poi,  l’enciclica analizza in modo più profondo tutto ciò marcando, anche in modo chiaro, la responsabilità del fatto e del perchè la Chiesa sia sempre stata  richiamata come avversaria della corporeità .

Pur avendo colto in profondità e con entusiasmo il bellissimo ed innovativo messaggio papale, io non son sicuro che l’eros” indicato dal Pontefice come quello che vuole sollevarci “ in estasi” verso il divino, sia davvero l’eros a cui noi tutti facciamo riferimento.
L’eros, per me, appartiene solo al terreno, spinto dal pensiero e dall’immaginazione, si esplica in un contesto di pura carnalità e di istinto. Esso non potrà mai essere degradato fino a che si pratica sapendo che è solo quello e che non oserà mai pretendere di andare alla ricerca del divino.  E’ un atto fine a se stesso, senza alcun riferimento o pretesa verso la spiritualità, in quanto, al contrario , non potrebbe mai essere espresso in tal modo e con tanta passione: E’ un’espressione corporale di eccitazione che esterna una parte della nostra natura e che deve e può essere accettata solo se priva di violenza, al fine di tirare fuori la nostra parte umana che sprigiona energia.
Questa mia osservazione pone di certo molti dubbi sulla visione negativa che una certa società riserva ad ogni forma di omosessualità, poiché anch’essa tendendo ad esprimere un eros, rimane conforme ad un preciso desiderio dell’essere umano. L’eros può assumere in ogni momento le caratteristiche di un’espressione artistica dove l’immaginario spazia e si sviluppa rendendo forte l’eccitamento e la sensualità, sublimandoci dentro la sfera del terreno, esso ci può esaltare ed arricchire rimanendo circoscritto all’umano… Il problema sta nel fatto che, culturalmente, tutto ciò che appartiene alla sfera erotica sessuale, è stato da sempre considerato “amore”.  E qui….il riferimento ad una certa posizione filosofica sul relativitivismo morale… potrebbe entrare in pieno!
La Chiesa ha sempre legato la seduzione al demone, quando questa, nella sfera umana rappresenta semplicemente una fondamentale ed indispensabile premessa che genera l’eros e lo rafforza. Indicando tutto ciò che fa riferimento alla nostra natura erotico – passionale in un ambito esclusivamente terreno, io non credo di far torto a chi, sopra di noi, ci ha regalato questa bellissima possibilità di esprimerci e che non potrebbe mai ostacolarci nel manifestarla. Si può capire che questa è una visione difficile da accettare da chi esercita un ruolo delicato e canonico alla religione cattolica.
L’amore invece, è per me un’altra cosa! L’amore come Agape, è un sentimento che ha una sua diversa completezza e che pur volendo convivere con l’Eros, non potrà mai riuscire ad esserne pienamente compatibile.
L’amore è un sentimento che si offre e si riceve, ma che, soprattutto, non chiede,…. e noi sappiamo quanto è più bello ed elevato quando lo si dona!… Un sentimento che ci avvicina tutti, in quanto non è brama o desiderio puro, ma disponibilità. L’amore, al contrario dell’eros, può essere addolcito da un romanticismo e dalla poesia che lo sublima nel divino e che, col tempo, si lega alla ragione. L’amore nasce dalla passione e si costruisce nella ragione….. Li dove la ragione vorrebbe indicare  costanza e pasienza. 
Si è sempre teso ad identificare eros ed amore fusi in un unico sentimento. Questa dissimulata visione è sembrata utile per una morale comune ma, col tempo e col crescere della conoscenza, della comunicazione e la riconsiderazione di alcuni valori, questa tesi ha generato diverse problematiche alla vita sociale comune. Persino la Chiesa, se avesse distinto più nettamente l’erotismo sessuale (dandovi il giusto peso) dall’amore dettato da un sentimento puro, avrebbe reso maggiore credibilità al suo valore ed al significato dell’amore espresso da Cristo.
Credo quindi, che “eros” appartenga alla sfera dell’umano e come tutto ciò che appartiene alla vita terrena ha un inizio ed una fine, mentre “agape”, condividendo il pensiero del Pontefice, rappresenta l’amore infinito innalzato al divino.
L'amore con il quale si possono raggiungere infiniti risultati, l'amore che unisce e che può sicuramente salvare una società che tende a materializzare ogni cosa.
Infine, come già espresso prima, credo che ogni forma di vero amore non potrebbe che restare difficilmente comprensibile per l’eros: Pur potendosi accompagnare, il sentimento divino, resterà sempre scisso dall’impulso erotico.
Secondo il mio modesto pensiero…Agape ed Eros…..non potranno mai riuscire a manifestarsi contemporaneamente …….e non è certamente perché li voglia aprioristicamente contrapporre nella differenza, ma per il chiaro contrasto definito dalle loro manifestazioni. Quindi, per dirla con un aforisma latino ispirato a Cicerone : unicuique  suum (a ciascuno il suo)
Quando si trova il giusto equilibrio tra queste due differenti manifestazioni essenziali per la vita…  sicuramente non si offende il creatore, in quanto si trae separatamente il meglio del succo di ognuna di esse e non ci si pone ipocritamente.
Gli argomenti in proposito sarebbero tanti e potrebbero portarci lontano. Chiunque come me, che di certo non è il latore di questa verità, ma che si pone in proposito come un semplice esaminatore, in merito alla bella enciclica di Benedetto XVI, pur nutrendo qualche dubbio, dovrebbe ritenersi abbastanza equilibrato per continuare a relazionarsi con lo spirito che, per certi versi, ci vede in direzione di un analogo traguardo.
vincenzo Cacopardo





4 lug 2012

I Partiti... e l'essenziale rinnovamento



storia e funzione
I Partiti politici hanno un ruolo decisamente importante per la ricerca costante di nuovi percorsi della politica.
La Costituzione Italiana riconosce il loro ruolo  quando scrive, all’art. 49, che «tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere in modo democratico a determinare la politica nazionale». Da qui discendono quasi automaticamente alcuni principi:
-La formazione dei partiti è libera qualunque ne sia l’ideologia (l’unico limite è la riorganizzazione del partito fascista). 
-La repubblica si fonda sul pluralismo dei partiti( cioè non si può mai ammettere un unico e solo partito). 
-Ai partiti è riconosciuta la funzione di determinare la politica nazionale. 
-I partiti devono rispettare il metodo democratico, quindi, ogni minoranza deve rispettare le decisioni di una maggioranza (pur restando nella piena libertà di agire per diventare a sua volta maggioranza).
Il metodo democratico offre la possibilità dell’alternanza pacifica al potere tra maggioranza e minoranza. Dal punto di vista giuridico i partiti politici in Italia sono organizzazioni private che si configurano come associazioni non riconosciute e godono quindi dell’ampia libertà d’azione che è prevista dal codice civile per queste associazioni.
La necessità di accordi continui fra partiti ha portato alla cosiddetta partitocrazia, e cioè all'occupazione di tutti i gangli dell'amministrazione pubblica, con l'inevitabile conseguenza di corruzione, nepotismo, inefficienza, etc. L’insieme  delle ideologie e la fine della guerra fredda, ha portato ad una generale perdita di credibilità e autorevolezza dei partiti, culminata nel crollo successivo all'inchiesta di Mani Pulite del 1992.
Dopo la disgregazione di PCI e DC e la scomparsa del PSI e dei partiti laici le nuove forze politiche emergenti  come Forza Italia, creata nel 1993 dall'imprenditore Silvio Berlusconi, e partiti di protesta come la Lega Nord di Umberto Bossi, hanno portato al deterioramento dei partiti di massa e spinto verso la costruzione di un certo populismo. A più di dieci anni di distanza dall'apparente crollo della prima Repubblica, i partiti italiani con molta difficoltà si sono spinti verso un sistema bipolare.
Molti ritengono che il gran numero di partiti della Prima Repubblica fosse dovuto al sistema completamente proporzionale, e per questo si è chiesto di sostituirlo con un maggioritario secco. Tuttavia i è stato subito chiaro che in un sistema come quello italiano, caratterizzato da numerosi partiti a forte base regionale e privo di forze politiche paragonabili ai grandi partiti europei, il maggioritario invece che diminuire avrebbe moltiplicato il numero di partiti: il maggioritario secco spinge alla formazione di coalizioni, nelle quali i partiti piccoli hanno buon gioco nel chiedere un certo numero di seggi sicuri in cambio del proprio appoggio, oggi spesso determinante.
Anche l'ultima riforma elettorale del 2006, che restaura un proporzionale, ma che all'atto pratico è un maggioritario a collegio unico ed elimina le preferenze, conferisce un grande potere alla classe dirigente dei partiti che spesso rende impossibile una penetrazione di essi da parte della società civile.
La classe dirigente di questi contenitori di consensi potrà dimostrare l’importanza e le  ragioni di una esistenza solo se andrà incontro ad una vera riforma organizzativa, partendo dalla rappresentanza dei propri componenti e dalle relative capacità qualitative degli stessi.


La forza dei Partiti

    “Capacità e qualità dei componenti”


La forza  dei Partiti è rappresentata dai propri componenti. La capacità di costoro (spesso anche eletti al parlamento ed inseriti in un governo) dovrebbe basarsi sulle proprie qualità di ricerca delle idee e non sui vantaggi ricavati da rapporti con chi gestisce il potere. Un motivo più che valido per far sì che, tali componenti, non debbano avere rapporti di reciprocità con un certo potere amministrativoDovrebbero infatti occuparsi dei Partiti solo coloro che appartengono a quel lavoro di ricerca e di analisi dottrinale legato all’attività parlamentare in dialogo con la società civile. Lavoro che possa istruire in continuità nuove idee e procedure per una più moderna politica. Essi dovrebbero essere il comune filtro di collegamento con il Parlamento per un programma voluto dai cittadini, poiché naturali sponsor dei candidati e, soprattutto delle idee che propongono.

Un Partito deve essere una vera e propria officina di studio in continua ricerca che non dovrebbe mai ammettere alcuna formula assoluta in proposito. Per  natura dovrebbe affrontare un lavoro in equipe offrendo le giuste idee di confronto per ottenere un’unica vera forza di pensiero, svolgendo così, lo specifico lavoro di approfondimento. I componenti devono lavorare come un unico motore di ricerca per un sistema qualitativo ed innovativo della vita sociale, restando quanto più equiparati tra loro e senza sostenere alcun ruolo amministrativo.

La sfida interna di ogni Partito deve, dunque, basarsi sulla qualità e sull’apporto delle idee di tutti e fra tutti i membri. Ecco la ragione per la quale si dovrebbe valutare la personalità e le capacità di ogni singolo componente in base alle caratteristiche ideative od in riferimento alle particolari esigenze di un programma, evitando di esaltarle al di fuori di ogni specifico lavoro di ricerca e valorizzando, conseguentemente, un chiaro e funzionale lavoro di gruppo.

Nella realtà attuale vi è sempre un leader di partito che condiziona o viene condizionato da legami che vanno dall’interesse per l’immagine, alla esaltazione dialettica e comunicativa o, addirittura, da legami e rapporti di amicizia costruiti nel tempo che spesso nulla hanno a che fare con una valida qualità operativa. Ciò potrebbe essere da ostacolo per coloro che in realtà dovrebbero dimostrare di portare avanti soprattutto idee ed iniziative.

Lo studio della ricerca di un funzionamento della politica dovrebbe essere la base più importante sulla quale deve impegnarsi ogni Partito. Un importante settore  dovrebbe occuparsi seriamente di ricercare ed individuare sistemi più consoni alla nostra realtà, evitando così, di prendere solo esempio da modelli esterofili, spesso non utili alla nostra politica.

Oggi, si esaltano immagini e si sublimano qualità contribuendo a creare modelli assoluti e non pensieri innovativi, sfornando spesso leaders che, a loro volta si prefiggono un’esclusiva presa di potere in seno all’esecutivo. Ma l’interesse e l’esaltazione di un leader in seno al Partito, per logica, frena il delicato ed impegnativo lavoro che si dovrebbe affrontare: Ogni Partito non possiede alcuna verità assoluta, ma deve camminare con metodo e riflessione verso una continua ricerca…quindi anche un ruolo di “leader” al suo interno potrebbe apparire da ostacolo al funzionamento stesso di ogni attività partitica. 

 CRISI DELLA RAPPRESENTANZA


Nella fase odierna si pone una seria questione di rappresentanza politica. Il cittadino appare poco convinto da chiunque lo rappresenti in Parlamento. L’argomento odierno di principale importanza appare proprio quello della rappresentanza del ruolo dei Partiti che, oggettivamente, non potranno mai essere eliminati per l’importanza del ruolo che assumono, ma che devono sicuramente porsi delle regole più precise sia per la loro specifica funzione che per il loro sostentamento. Un ruolo sicuramente fondamentale visto nell’ottica della loro vera funzione che dovrebbe essere quella di ricercare, più che di ostentare verità, che dovrebbe assumere posizioni di rispetto ed umiltà nei confronti dei cittadini ai quali si deve prestare un utile servizio. 

Appare, quindi, seria una presa di posizione dei Partiti che, dovendo partecipare alla elezione dei rappresentanti deputati a formulare leggi e normative a beneficio degli stessi cittadini, devono poter espletare il loro compito con una precisa posizione in riferimento ad un programma studiato e sostenuto in favore ed a beneficio del Paese. In questo quadro sembra opportuno un lavoro continuo dei Partiti verso dibattiti e conferenze, potendo dare a chiunque la possibilità di informarsi ed esprimersi su precise questioni di ordine politico. 

I Partiti devono poter operare, in contatto con i cittadini, principalmente per la formulazione di quel "programma" che dovrà essere, in seguito, messo in votazione nel Paese. Non devono chiudersi in un loro stretto circuito... non devono apparire distaccati o sopraelevati rispetto alla società. I loro rappresentanti non potranno mai fare parte integrante di una casta, poichè il loro compito dovrebbe essere quello di assecondare i cittadini e la popolazione nello svolgimento del loro lavoro con piena convinzione e vera deontologia politica.

Ed ecco, perciò, l’esigenza di un “ programma”, l’importanza di uno studio portato dal Partito e spinto, dopo una attenta ricerca, attraverso un dialogo con chi partecipa alla vita sociale, e culturale del Paese: il cittadino. Questa è la vera ragione per la quale essi devono essere finanziati dallo Stato in modo equo e non per la loro ampiezza di consensi. In uno Stato che prevede categorie svantaggiate ed altre agiate, se si desidera sostenere una vera democrazia, si deve partire da una base equa soprattutto per il sostegno ai progetti che riguardano l'organizzazione politica della società. Pensare a finanziamenti privati significherebbe ostacolare il percorso di una vera democrazia a beneficio dei potenti e delle lobby. Questo argomento è in sé importantissimo poiché nel momento storico attuale se ne discute senza legare ciò alle specifiche funzioni legislative ed esecutive: Chi deve amministrare dovrebbe farlo per meriti pratici relativi alla propria capacità nel settore, chi studia programmi e dialoga con i cittadini deve invece farlo ideando, ascoltando ed organizzando dibattiti

Si può, quindi, percepire il rilievo che pone la divisione di questi due ruoli nel momento di una elezione e cioè, quanta poca importanza finanziaria dovrebbe avere una campagna per l’elezione di un amministratore, che di per sé potrebbe essere meritevole per proprie capacità inerenti la professionalità,  e quanto maggiore può essere sostenere i costi di una campagna elettorale per la ricerca e la costruzione di un programma in contatto con i cittadini.    Se un Partito si ingrandisce e si espande nel territorio, poiché le idee che esprime attraggono il consenso, si potranno..forse..prevedere finanziamenti privati attraverso formule e normative da definire. E’ però, logico, in base a questa ricerca, che si debbano prevedere studi separati per una divisione più appropriata ed idonea relativa ad una diversa campagna elettorale.

I Partiti devono spingere, assecondare, devono, ricercare, interpretare, mediare, ideare…insomma, svolgere quell’azione induttiva per la determinazione di ogni programma: Sono il vero motore di ricerca, ma tutto ciò potrà avere una validità, solo se attraverso un contatto diretto con i cittadini. Questo potrà essere il loro vero ruolo utile e non  quello di rappresentare, privi di programmi, un posizionamento politico spesso solo per naturale convenienza. Non devono porsi al cospetto dei cittadini con un’immagine che distoglie dalle idee e che condiziona attraverso una deviante comunicazione.

Ecco la ragione per la quale essi dovrebbero essere riorganizzati e riformati attraverso normative più chiare e definite. L’identificazione in un programma impegna ogni suo rappresentante politico ad una precisa responsabilità e fa sì che esso, non potendo entrare nell'amministrativo, potrebbe più consapevolmente immedesimarsi in un ruolo di ricerca.
vincenzo Cacopardo 
 

22 giu 2012

Studio e ricerca delle nuove contrapposizioni politiche



Vecchie contrapposizioni e nuove teorie per un percorso innovativo di ricerca per la funzionalità della politica

“premessa”
Già da parecchi anni la politica stenta a dare forza ad un processo funzionale del nostro Paese. Da quando scrissi il mio piccolo libro “La politica ed il cambiamento” nel quale avevo già messo in evidenza tutte le difficolta' di un sistema bipolare troppo anticipato nei tempi, rispetto ad una Repubblica edificata sul centrismo democristiano, sono passati parecchi anni. Nel trascorrere di questi, ho approfondito con l’esclusivo senso della partecipazione, la possibilità di altri percorsi più inerenti al processo di una veloce modernizzazione.
Sono idee teoriche poste come ricerca per il riscontro di un alternativo sistema che, da troppo lungo tempo, si basa sulle ormai poco costruttive posizioni antitetiche sinistra –destra.

Nello studio…si ricerca la strada di un progetto di innovazione della politica rivolto verso una specializzazione dei ruoli  (induttivi-deduttivi) dove la parola chiave dovrebbe essere “funzionalità”, come sinonimo di efficienza ed innovazione ma anche intesa come teoria secondo la quale, la funzione di ognuno, ha una importanza predominante sulla evoluzione stessa.
Uno studio che vorrebbe basarsi su un principio di specializzazione e di suddivisione del lavoro.
Sappiamo bene che la politica per muoversi deve far uso delle istituzioni e  queste non possono non essere riviste e rinnovate seguendo un cambiamento imposto da una società che si innova.
La evidente dicotomia che scaturisce in un sistema come il nostro, che per Costituzione rimane di principio Parlamentare, fa si che possano automaticamente sorgere contrasti i quali, non favoriscono lo sviluppo naturale di una vera politica costruttiva. Quella simbiosi politica evidenziata nel Diritto Costituzionale, affinché ambedue i poteri potessero camminare in sinergia, per far sì che si costruissero assieme leggi, programmi e relative mansioni amministrative, si è persa poiché vittima della mancanza di valori fondamentali ormai spariti.
Alcuni programmi esposti in sede di elezioni vengono esclusi o non inseriti nei tempi dovuti, altri, scaturiscono in un gioco di condizionamento in corso d’opera che ne cambia il senso e la volontà espressa in un primo momento. Il risultato di tutto ciò è sempre un brutto ed inaccettabile compromesso. Da qui l’esigenza di dover distinguere i ruoli persino in termini di carriere.
In base a ciò.. sembra, quindi, più che necessario dover guidare un processo di modernizzazione della politica che parta dai principi di una giusta funzione della dottrina. Un percorso più efficiente che possa esser costruito col dialogo ed insieme ai cittadini, ma che possa anche definire un ruolo amministrativo più concreto e sicuro.
Un rivoluzionario cambiamento che potrà vedere anche territorialmente competenze diverse lasciando alle regioni una politica di indirizzo seguita dai ruoli parlamentari ed ai comuni (che necessitano prevalentemente di strutture e servizi).. un’unica politica seguita dai ruoli amministrativi.


Percorsi innovativi per il cambiamento

L’idea di poter dividere in modo più deciso le funzioni del potere legislativo da quello esecutivo, affidando ruoli separati per tutto l’arco della legislatura, non è sicuramente gradito alle forze politiche odierne: Il fatto di non poter dare contestualmente voce ed esecuzione alle loro azioni, li vedrebbe sottoposti in uno strano compito che non riuscirebbero a percepire positivamente. La maggioranza di loro si opporrebbe di certo ad una idea simile, ritenendo impossibile creare un ambito in cui chi governa e decide un programma, non viene contestualmente inserito in quella opera di costruzione delle leggi, essenziale per la determinazione progettuale di ciò che si vuole realizzare. Rimane comunque, il fatto che proprio ”un programma”, in via preventiva, non può non essere  vagliato, discusso, partecipato ed infine votato dagli stessi cittadini.
La visione odierna è certamente legata ad una condizione che lega in modo assiomatico il compito del politico nel suo genere: Una concezione che parte dal principio che chi governa, oltre a decidere, deve essere in grado di definire le normative. Un concetto legato ad una politica determinata nel passato, in cui si aveva una visione alta dei suoi valori, suggerendo costituzionalmente un armonico raccordo tra i due poteri, al fine di una costruzione più utile e corretta.
Ed è proprio questa la base di partenza sulla quale si potrebbe porre qualche riserva, poiché non è detto che, oggi, questa procedura possa essere quella giusta per determinare la funzionalità e la concretezza delle proposte. Anzi, partendo dall’alto, ogni proposta, finisce spesso con l’essere bloccata o distorta in via parlamentare. Al contrario, poi, attraverso la molteplicità dei decreti o le richieste di fiducia, si svilisce notevolmente il lavoro dei parlamentari.

Nel sistema che ancora oggi si vuole di democrazia, si è ormai creata una anomalia di chi governa in contrasto con chi legifera. Tanto estesa e ricca di compromessi, questa anomalia, determina una apparente e, non più realistica organizzazione democratica. La vera democrazia soffre e porta il cittadino ad una  possibilistica visione futura di un sistema più duro e deciso, ma almeno più stabile, assai vicino ad una dittatura. Nel nostro sistema di democrazia parlamentare, si pretende oggi, una più stabile governabilità e, a volte, irragionevolmente, non si accetta che chi governa si possa sottoporre al consenso di un’aula parlamentare.
Appare logico, quindi, che a difesa dell’istituzione democratica del Paese, si debba assolutamente limitare il campo dei compromessi, cambiando radicalmente alcuni principi che partono dallo stesso testo della Costituzione.  Sembra fondamentale seguire un iter di metodo facendo partire le proposte dalla base logica di chi fa ricerca proponendosi attraverso il dialogo col cittadino, ossia il vero politico parlamentare, eletto nella propria comunità. Proposte che poi, supportate nel merito e nella determinazione, in un percorso esecutivo, possano essere affidate ad altri.
Sappiamo quanto possa sconvolgere oggi un cambiamento così radicale tanto da separare i ruoli ma, credo che questa trasformazione appare oggi suggerita dai tempi e da una esigenza legata al mutamento dei valori che impongono tutto ciò, per una logica  difesa di un efficiente sistema democratico. Il vero problema si pone, invero, nel trovarne il modo, in un meccanismo come il nostro che appare tanto bloccato nei cambiamenti, quanto fermo nella ricerca e nel metodo delle nuove idee. Ma quali potrebbero invece essere, in alternativa, le trasformazioni possibili, se non quelli di condurci matematicamente verso sistemi più duri?


Per ovviare a questi, bisognerebbe salvare le regole principali su cui si basa una sana democrazia e cioè;quella di partire da una base del consenso espressa dai cittadini, non tanto per le candidature, ma soprattutto per il programma. Se muore un Governo, se ne fa un altro, ma se dovesse morire un Parlamento, sarebbe la fine di una democrazia. Quindi il primario lavoro di chi vuole operare nel campo della politica costruttiva, dovrebbe essere quello di lavorare bene per un sistema di democrazia moderna e di attualità oltre che funzionale.

Ecco la ragione per la quale la responsabilità del programma deve essere prevalentemente dei cittadini attraverso il contatto con i propri Partiti (debitamente riformati da regole più consone e funzionali al loro lavoro). Il problema delle candidature rispetto all’importanza del programma risulta secondario e sicuramente più legato a precisi meriti amministrativi. 

Potremmo quindi affermare che proprio per salvaguardare le decisioni dei cittadini, l’idea di ciò che si vuole realizzare, ossia la progettazione di base del programma, dovrebbe non essere affidata ad un Governo, ma alle decisioni degli stessi cittadini. Al Governo dovrebbe essere affidato il compito di eseguire il programma deciso per consenso dai cittadini, come esecutore razionale che può, forse, partecipare nel metodo, ma non entrare nel merito, se non per motivi particolari. 

Alla classe politica parlamentare, dovrebbe invece spettare il compito di analisi e studio della ricerca in rapporto con i cittadini per avviare e definire lo stesso programma.

Per conservare i valori di una sana democrazia nel nostro Stato, questo deve sicuramente rendersi confederato, ma deve poter crescere attraverso un programma suggerito dai Partiti ispirato ed espresso attraverso il consenso dei cittadini, i quali non potranno in seguito lamentarsi delle scelte volute dalla loro stessa maggioranza. Si tratta quindi di coinvolgere i cittadini soprattutto sul tema del programma, studiato in partecipazione con i Partiti, più che sul voto da dare ai singoli politici parlamentari. Come, al contrario, a chi dovrà amministrare, sarebbe più logico dare un consenso per le qualità e le capacità al di là del programma che dovrà eseguire.

Abbiamo oggi uno Stato democratico repubblicano, ammantato di  falsa democrazia ma, in realtà, costruito su una oligarchia dei Partiti che, un domani, dovrebbe  trasformarsi in uno Stato democratico federato edificato sul programma dei cittadini.

Per i ruoli amministrativi si potranno persino ricercare due figure, l’una in ruolo di verifica della linea di governo, l’altra in un ruolo tecnico per le normative di metodo per lo svolgimento del programma. Ambedue avranno un compito di costruzione operativa e di controllo.
Per definire bene e con logica un percorso costruttivo, occorrono però regole chiare anche sulla divisione dei poteri, al fine di poter trovare una giusta sintesi funzionale costruita su elementi culturali che abbiano un’importanza predominante sulla evoluzione stessa della politica. Uno studio organizzativo che, come già suggerito, non potrebbe non basarsi su un principio di specializzazione e di suddivisione del lavoro.
  
 Le contrapposizioni politiche


Credo che qualunque sistema odierno che pretendesse di assumere in se il pluralismo di una politica di base ed una governabilità stabile, non potrebbe che trovare enormi difficoltà per il contrastante aspetto derivante dalla diversa funzione di queste due “azioni”.
Il problema assai discusso della separazione delle carriere tra il giudice ordinario e quello requirente, viene oggi posto come una soluzione indispensabile per sciogliere il nodo di un possibile compromesso fra i due ruoli della giustizia. Lo stesso problema, rapportato alle differenti funzioni della politica, dovrebbe spingere la ricerca di una soluzione per il compito da assegnare ai singoli politici, ispirando una più chiara differenziazione tra il ruolo legislativo e quello esecutivo, anche in termini di carriera.
Una divisione più marcata dei ruoli tra potere esecutivo e legislativo, oggi, occorre in modo evidente. Sembra che una moderna politica quasi la imponga come difesa di valori che sono differenti in termini di metodo, logica e qualità.  Chi opera in campo legislativo non potrebbe che rendersi il più possibile estraneo a qualunque azione esecutiva, proprio perché più spesso la sua azione viene troppo condizionata da interessi anche di partito e tipici di qualunque potere governativo.
Del resto il potere esecutivo racchiude in se una logica chiara, pragmatica e ben precisa: governare, e cioè amministrare un Paese. Un’azione che deve avere indirizzi precisi ma che non può ottemperare solo ad una richiesta politica assunta dall’alto. Per far ciò, bisogna far uso di regole provenienti dal basso che un altro distinto potere dovrebbe fornire. Ecco perché si auspica da parte di ogni amministratore la competenza necessaria in ordine a ciò che si deve amministrare ed ecco la ragione per la quale sembra opportuno far si che questo compito venga demandato a figure tecniche e professionali di grandi capacità realizzative.
Tuttavia l’equilibrio suggerisce una chiara divisione di questi ruoli spettanti alla politica attraverso due azioni: L’una   “induttiva” che lavori insieme e per conto dei cittadini ed un’altra “deduttiva” , che realizzi i desiderati bisogni.
Si legifera e per questo si governa! Ma l’attuale modo di governare e legiferare insieme, con i moderni sistemi di sintesi imposti dai Partiti, sta sottoponendo tutto il nostro sistema politico istituzionale ad un orribile spettacolo che rischia sempre più di compromettere ogni azione di vera “funzionalità”  della politica.
vincenzo Cacopardo