7 set 2013

Un commento di Domenico Cacopardo su Obama


IL FIATO CORTO DI OBAMA di domenico Cacopardo 
Il passare dei giorni mette sempre più a nudo il presidente degli Stati Uniti, lo trasforma in una tigre di carta, lo ridicolizza di fronte ai suoi cittadini e al mondo. A dimostrazione che non basta essere un buon comunicatore, un oratore efficace, un inventore di slogan per essere uomo di Stato e di governo.
Il secondo mandato di Obama, libero da esigenze elettorali, amplia i limiti già manifestati in politica interna e internazionale.
C’è un elemento di fondo che, peraltro, trascende la persona e il ruolo del presidente americano: gli Stati Uniti non sono né possono più essere i gendarmi del mondo, l’unica potenza globale. Debbono fare i conti con la Cina e con le innumerevoli potenze regionali che sono emerse con forza nell’ultimo decennio, dal disastro iracheno a oggi.
La capacità di convincimento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, quella capacità che aveva dato copertura all’intervento nei Balcani e in Afghanistan è venuta meno del tutto.
Il Medio Oriente è la cartina di tornasole della situazione odierna. Dopo avere avviato le rivoluzioni egiziana, libica e tunisina, dopo avere registrato il fallimento dei nuovi assetti politici in quell’area, dopo avere esercitato il massimo della doppiezza in Siria (appoggiando in modo frustrante e limitato i ribelli anti-Assad, tra i quali un ruolo non secondario hanno i terroristi di Al Qaeda),
dopo avere incautamente disegnato una linea rossa, quella dell’uso delle armi chimiche, Barak Obama si trova solo con la Francia, un paese che tenta di sopire storiche delusioni con un attivismo internazionale condizionato da insufficienti risorse militari. Né il Regno Unito né altre nazioni della Nato, compresa la fedelissima Italia, lo seguono sulla strada dello strike annunciato
in Siria. Sul piano interno, al Congresso, a oggi, non c’è una maggioranza favorevole all’attacco. Ci vorrà un lungo e travagliato processo per evitare un vero e proprio voto di sfiducia nei confronti del presidente e della sua politica.
C’è una via d’uscita da questo pasticcio?
Il G20 del 5 settembre ha mostrato la solitudine degli Stati Uniti. Anche il papa, ritrovando iniziativa pastorale e geopolitica, s’è schierato contro. L’unica base possibile di consenso sarebbe la rinuncia all’attacco e la consegna del dossier alle Nazioni Unite.
Rimane una domanda: perché? Il sovrano americano non ha giustificazioni economiche o finanziarie. A guardar bene, la guerra, limitata e circoscritta, che Obama vuole scatenare in Siria è una guerra per conto terzi: per conto dei sunniti e dell’Arabia Saudita che li sostiene. E per Israele per diffidare dal commettere passi falsi il principale sostenitore di Assad, l’Iran.  Insomma, vorrebbe realizzare un intervento a gamba tesa in questioni infraarabe, nelle quali gruppi tribali e religiosi si alleano e si combattono secondo geometrie instabili.
Basta una questione di principio (la ‘punizione’ di Assad per l’uso delle armi chimiche) per giustificare il colpo? Abbiamo dimenticato quali armi le truppe americane hanno usato per distruggere la fortezza di Falluja in Iraq in mano ai qaedisti? I rapporti di stampa e delle organizzazioni umanitarie sostengono che, tra esse, c’erano i gas, cioè gli strumenti chimici oggi esecrati.
Non occorre ricorrere alla dietrologia, per ritenere che Obama, con il tentativo di colpire la Siria, intende recuperare a se stesso e al suo Paese l’influenza e, soprattutto, la leadership perdute.

Purtroppo,  questa non è la strada. Il prestigio è difficile conquistarlo, ma facilissimo perderlo irrimediabilmente.

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