Il demone “alluvione” è
tornato.
S’è presentato in
Sardegna sotto forma di ciclone -”Cleopatra” l’ha definito la Protezione
civile-.
Con esso è tornata in
video la proterva arroganza di Franco Gabrielli (che però, nel caso Concordia,
s’è ben comportato) pronto ad accusare gli altri, dimentico che la questione
riguarda proprio il dipartimento che dirige, abituato a lanciare allarmi anche
per la pioggerella primaverile della sua Viareggio e, quindi, inascoltato come
chi grida, a ogni stormir di fronde, «Al lupo! Al lupo!»
L’accusa che i sardi
investiti dal disastro, in modo unanime, rivolgono alle autorità è quella della
mancata pulizia dei corsi d’acqua.
La questione viene da
lontano ed è ideologica.
Da qualche decennio,
infatti, le associazioni ambientaliste si oppongono sia alla pulizia dei fiumi
che all’escavazione dei materiali alluvionali.
Mi spiego: la ‘portata’
di un fiume, la capacità cioè di “far passare” l’acqua, dipende dalla sua
sezione. Osservandolo in prospettiva, un fiume è come un’autostrada e
l’agibilità delle sue corsie determina il flusso del traffico. Se l’ANAS
lasciasse crescere liberamente gli arbusti nelle corsie, il traffico si
intaserebbe sino a fermarsi.
Questo è il problema dei
fiumi. Ed è aggravato dalla mancanza di soldi che impedisce di appaltare la
loro pulizia. La soluzione storica era quella di affidarsi alle ditte escavatrici
che, avendo necessità di ghiaia, restituivano ai fiumi la loro portata
standard. Certo, si sono visti abusi, come nelle Grave di Papadopoli sul Piave,
ma spetta alle mitiche o inesistenti ‘autorità’ impedirli. Il veto degli
ambientalisti ha completato l’opera e il danno è diventato irreparabile.
L’altro problema, più
grave, è quello istituzionale. In tutto il mondo, il corso d’acqua è
considerato un’unità inscindibile da amministrare unitariamente, sia nei suoi
aspetti quantitativi (le portate) che in quelli qualitativi (l’inquinamento).
In Italia, naturalmente,
si è fatto tutto l’opposto, dividendo sin dal 1971 le competenze idrauliche da
quelle ambientali, passate alle regioni.
Il capolavoro, però, è
costituito dalla legge organica sulla difesa del suolo (18 maggio 1989, n.183)
patrocinata dal senatore Achille Cutrera, un avvocato, con la quale sono state
istituite le autorità di bacino, organi operativi delle regioni.
Per il Po, per esempio,
le decisioni di finanziamento spettano agli assessori regionali (i quattro
fondamentali sono il piemontese, il lombardo, il veneto e
l’emiliano-romagnolo). Ovviamente soldi e lavori sono ‘spartiti’ secondo
lottizzazione territoriale.
Il Magistrato per il Po
(in passato diretto da autorità idrauliche di livello mondiale, come Pavanello
e Rossetti, quest’ultimo coprogettista della sistemazione del Rodano),
costituito dopo la devastante alluvione del 1951, è stato abolito. Aboliti gli
uffici del genio civile che espletavano l’essenziale Servizio di piena. Le loro
competenze sono state spartite tra le regioni, le provincie, una specie di
consorzio interregionale e la compagnia di giro inventata da Giuseppe
Zamberletti in occasione del terremoto del Friuli, cioè la Protezione civile.
Il più noto dei capi di questo dipartimento, Guido Bertolaso è un medico
scovato da Beniamino Andreatta, quand’era ministro degli esteri, in una delle
tante onlus che si occupavano di cooperazione internazionale.
Le incapacità delle
regioni fatalmente si riflettono sulla gestione del territorio e sulla difesa
del suolo. Da qui occorrerebbe muovere, ridefinendo competenze e
responsabilità.
La difesa del suolo è
come la poesia: carmina non dant panem. La prevenzione conviene poco ai
politicanti. È meglio intervenire dopo, diventando benefattori di migliaia di
sinistrati.
Nessun commento:
Posta un commento