25 nov 2013

Un commento di domenico Cacopardo sulla recente alluvione

Piove: Italia in tilt
di Domenico Cacopardo già Presidente del Magistrato alle acque di Venezia
Il demone “alluvione” è tornato.
S’è presentato in Sardegna sotto forma di ciclone -”Cleopatra” l’ha definito la Protezione civile-.
Con esso è tornata in video la proterva arroganza di Franco Gabrielli (che però, nel caso Concordia, s’è ben comportato) pronto ad accusare gli altri, dimentico che la questione riguarda proprio il dipartimento che dirige, abituato a lanciare allarmi anche per la pioggerella primaverile della sua Viareggio e, quindi, inascoltato come chi grida, a ogni stormir di fronde, «Al lupo! Al lupo!»
L’accusa che i sardi investiti dal disastro, in modo unanime, rivolgono alle autorità è quella della mancata pulizia dei corsi d’acqua.
La questione viene da lontano ed è ideologica.
Da qualche decennio, infatti, le associazioni ambientaliste si oppongono sia alla pulizia dei fiumi che all’escavazione dei materiali alluvionali.
Mi spiego: la ‘portata’ di un fiume, la capacità cioè di “far passare” l’acqua, dipende dalla sua sezione. Osservandolo in prospettiva, un fiume è come un’autostrada e l’agibilità delle sue corsie determina il flusso del traffico. Se l’ANAS lasciasse crescere liberamente gli arbusti nelle corsie, il traffico si intaserebbe sino a fermarsi.
Questo è il problema dei fiumi. Ed è aggravato dalla mancanza di soldi che impedisce di appaltare la loro pulizia. La soluzione storica era quella di affidarsi alle ditte escavatrici che, avendo necessità di ghiaia,  restituivano ai fiumi la loro portata standard. Certo, si sono visti abusi, come nelle Grave di Papadopoli sul Piave, ma spetta alle mitiche o inesistenti ‘autorità’ impedirli. Il veto degli ambientalisti ha completato l’opera e il danno è diventato irreparabile.
L’altro problema, più grave, è quello istituzionale. In tutto il mondo, il corso d’acqua è considerato un’unità inscindibile da amministrare unitariamente, sia nei suoi aspetti quantitativi (le portate) che in quelli qualitativi (l’inquinamento).
In Italia, naturalmente, si è fatto tutto l’opposto, dividendo sin dal 1971 le competenze idrauliche da quelle ambientali, passate alle regioni.
Il capolavoro, però, è costituito dalla legge organica sulla difesa del suolo (18 maggio 1989, n.183) patrocinata dal senatore Achille Cutrera, un avvocato, con la quale sono state istituite le autorità di bacino, organi operativi delle regioni.
Per il Po, per esempio, le decisioni di finanziamento spettano agli assessori regionali (i quattro fondamentali sono il piemontese, il lombardo, il veneto e l’emiliano-romagnolo). Ovviamente soldi e lavori sono ‘spartiti’ secondo lottizzazione territoriale.
Il Magistrato per il Po (in passato diretto da autorità idrauliche di livello mondiale, come Pavanello e Rossetti, quest’ultimo coprogettista della sistemazione del Rodano), costituito dopo la devastante alluvione del 1951, è stato abolito. Aboliti gli uffici del genio civile che espletavano l’essenziale Servizio di piena. Le loro competenze sono state spartite tra le regioni, le provincie, una specie di consorzio interregionale e la compagnia di giro inventata da Giuseppe Zamberletti in occasione del terremoto del Friuli, cioè la Protezione civile. Il più noto dei capi di questo dipartimento, Guido Bertolaso è un medico scovato da Beniamino Andreatta, quand’era ministro degli esteri, in una delle tante onlus che si occupavano di cooperazione internazionale.
Le incapacità delle regioni fatalmente si riflettono sulla gestione del territorio e sulla difesa del suolo. Da qui occorrerebbe muovere, ridefinendo competenze e responsabilità.
La difesa del suolo è come la poesia: carmina non dant panem. La prevenzione conviene poco ai politicanti. È meglio intervenire dopo, diventando benefattori di migliaia di sinistrati.


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