Se avesse studiato –o, almeno, letto- un
qualsiasi manuale di strategia, Barak Obama avrebbe imparato che, in politica,
occorre misurare i passi e le decisioni con la capacità di sostenerli, alla
luce delle forze in campo.
Se avesse usato l’elementare prudenza che
questa regola impone a chi ha responsabilità di comando, avrebbe cercato di
valutare, prima di scatenare le rivoluzioni nel Nord-Africa, cosa sarebbe potuto
accadere dopo.
Sono passati tre-quattro anni dalla Rivolta dei gelsomini, la prima,
scoppiata in Tunisia, e il bilancio nello scacchiere è fallimentare. Nella
stessa Tunisia, mercé la regia francese, la situazione sembra stabilizzata
mediante un ragionevole compromesso costituzionale tra integralisti e laici. Si
tratta di un accordo fragile che può andare in crisi da un momento all’altro,
non appena gli islamisti si produrranno in qualche nuovo affondo sulla
condizione femminile o un attentato di loro adepti provocherà l’ennesima
strage.
L’Egitto è uscito dall’instabilità e
dalla sostanziale primazia dei Fratelli
musulmani del presidente Morsi, vincitore delle elezioni, per il colpo di
Stato militare che, presto, dopo una nuova consultazione, darà il governo al
generale Mansour, ben deciso a ridimensionare il peso politico del radicalismo
religioso. In una nazione dove esistono una borghesia laica e dove i giovani
guardano a Occidente, il favore popolare sembra assicurato.
I disastri peggiori sono altri due: la
Libia, in preda all’anarchia e con una forte presenza di milizie qaediste
(presenti anche nel Sud della Tunisia) e la Siria, nella quale i qaedisti stessi
hanno preso in mano il movimento anti Assad con tutte le drammatiche
conseguenze di cui si legge sempre meno nei quotidiani occidentali, tutti sposati alla causa dei ribelli. Nemmeno
le continue stragi di religiosi cristiani, la biblica fuga di qualche centinaio
di migliaia di siriani verso l’Europa, riescono a introdurre un po’ di realismo
nelle valutazioni delle opinioni pubbliche continentali. I governi, invece,
sembrano più consapevoli (anche se tacciono) e investono nel sostegno ai
ribelli nonqaedisti con risultati poco rassicuranti. Gli esperti valutano che i
non siriani nelle file dei anti Assad siano la maggioranza e che appartengano a
oltre 250 nazionalità diverse (in maggioranza, però, ceceni). Non è nemmeno
chiaro dove sia oggi l’Arabia Saudita, visto che il suo sostegno al fronte
rivoluzionario s’è trasformato in non voluto supporto al fronte di Al Qaeda
(nemico n. 2, dopo gli sciiti).
Queste considerazioni sono la premessa di
un breve ragionamento sull’Ucraina. Mutatismutandis,
la questione sembra una Cuba rovesciata. Nella crisi di Cuba, Krusciev
intendevano installare i propri missili a poche miglia dalla Florida. In
questa, Obama intende completare l’accerchiamento dei russi con strumenti
politici e militari.
C’è un secondo fine, nell’appoggio
americano al governo provvisorio ucraino (nel quale ambienti della destra
neonazista e xenofoba hanno un peso significativo): il ridimensionamento del
ruolo della Germania, della sua ostpolitik,
e dell’Europa nel suo complesso, più portata a commerciare che a competere con
la Russia di Putin.
Alla fine, l’isolamento indurrà Obama a
miti consigli per addivenire a un ragionevole accomodamento. Anche perché non ha
altri strumenti di pressione, a parte il militare,
opzione spuntata e, quindi, inesistente.
Ne valeva la pena?
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