di domenico Cacopardo
Ieri mattina, ho ascoltato, intorno alle 9, una trasmissione di Rai1 dedicata alla riforma della pubblica Amministrazione: intervistati la ministra Marianna Madia, compagna del dottor Gianani, figlio di Felice, gran signore di grande professionalità, mitico direttore generale dell’Abi (vicino a Ugo La Malfa), e il giudice costituzionale Sabino Cassese, sulla cui ben nota competenza non mi soffermo.
Madia ha chiarito le tre nuove ragioni per le quali lei e il governo riusciranno, per la prima volta, a riformare la pubblica Amministrazione: 1) la richiesta che sale dal Paese; 2) Renzi premier; 3) la fine dei gruppi sociali di pressione (riferimento esplicito al sindacato).
La ministra (pro-tempore) ignora che la richiesta di riforma dello Stato sale dal Paese dal 1861, salvo il periodo fascista, nel quale non poteva essere espressa. Ignora, altresì, che il primo ministro non assomma tutte le necessarie attribuzioni istituzionali e che, quindi, può svolgere solo una funzione di impulso. E non sa, infine, che, a parte questa Confindustria, ormai non più interlocutore significativo di qualunque governo (per l'assenza della grande industria salvo quella pubblica), il sindacato è di certo in difficoltà ma non è domo e non sarà domato né da Matteo Renzi né da lei medesima. Anzi, le contorsioni del disegno di riforma presentato, aprono una prateria di osservazioni e di contestazioni da parte del sindacato e di tutti i gruppi sociali organizzati.
La sensazione che si ha, girando per Roma e incontrando le persone informate, è di una serie di autobus guidati da non vendenti (con tutto l’affettuoso rispetto e amicizia per la categoria) e da non sapenti. Lo sciocchezzaio quotidiano del personale di governo (renziano) è talmente ingombrante da dover essere liquidato proprio con la parola che lo definisce: uno sciocchezzaio.
Sulla questione pubblica Amministrazione diciamo alla Madia (che difficilmente potrà comprendere il ragionamento) che la questione non è organizzativa. Anzi, l’organizzazione è fatto temporaneo e transeunte e, di norma, deve essere costantemente adeguata alle necessità. Sono ininfluenti, rispetto al fenomeno organizzativo, i prepensionamenti (un cambio di rotta che sarà duramente bastonato dall’Unione Europea, ma questo non diciamolo alla ministra) e altre baggianate, tipo la mezza abolizione delle prefetture.
Quello che importa e che deve essere definito (compito al di là delle possibilità dell’attuale governo Renzi) è il prodotto, cioè la qualità e l’intensità dei servizi che uno Stato moderno deve dare ai propri cittadini.
Partendo dalla definizione dell’obiettivo, si può immaginare uno strumento organizzativo (task units) che adegui il complesso dei servizi al cittadino.
Un lavoro di questo genere era ciò che un governo consapevole avrebbe richiesto al Cnel (consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) una di quelle istituzioni liquidate con una battuta per totale ignoranza delle sue possibilità di studio ed elaborazione.
C’è molto zeitgeist (spirito del tempo) nel supponente accento di Renzi e del suo giro di fronte alle elite che si sono affermate nel Paese dal 1861 a oggi: professori universitari, consiglieri di Stato, alti dirigenti, professionisti di vaglia vengono guardati con fastidio rifiutando i loro contributi. I nostri non vendenti e non sapenti ignorano che le elite sono la ricchezza di una nazione.
Già. Dimenticavo. Anche Renzi&suoi considerano la ricchezza il male.
Peccato che, se non si finisce di criminalizzare i ricchi e la ricchezza, il processo di accumulazione (e la redistribuzione) non riprenderà il corso che, fisiologicamente, ha nei paesi sviluppati.
Ma Deus amentat quos perdere vult. Dimenticavo di nuovo. Difficilmente i nostri scout governativi sanno il latinetto: Iddio acceca coloro che intende perdere.
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