E così, a 87 giorni dall’esplosione dello scandalo Mose, nulla è, sostanzialmente, cambiato. Solo piccoli fatti nominali. È stato abolito il Magistrato alle acque (un istituto di derivazione dalla Repubblica Veneta e dall’imperial regia amministrazione austriaca, custode di memorie tecniche di grande importanza scientifica, come il progetto napoleonico di estromissione del Brenta dalla Laguna), eliminando virtualmente lo strumento, non la mano che l’ha usato in modo illecito. Scrivo virtualmente perché la riforma della pubblica Amministrazione, di cui ci stiamo occupando su Italia Oggi, nell’abolire il Magistrato ne ha trasferito i poteri-doveri al provveditore alle opere pubbliche. Una «fictio», giacché il presidente del Magistrato è sempre stato anche provveditore alle opere pubbliche e l’ufficio è il medesimo: il Palazzo dogale dei X Savi, a Rialto. Piano terra e primo piano Magistrato, secondo piano Provveditorato. Comitato tecnico unico.
Lo scandalo maggiore, però, riguarda il merito.
Avevamo chiesto una «due diligence» sulla montagna di spese fatturate dal Consorzio Venezia Nuova allo Stato: era lì la fonte degli illeciti, il deragliamento da ogni dovere morale di imprenditori e pubblici funzionari, compresi gli sciami di consulenti e collaboratori esterni. Infatti, c’è un delta tra i soldi effettivamente spesi nelle progettazioni e nelle opere e le fatture presentate allo Stato. Un delta enorme che ha consentito di dissipare quattrini in finanziamenti «liberali» alle più stragavanti iniziative, bonus immotivati (legalmente) ai dipendenti, regalie a politici, partiti e funzionari. Questo delta va indagato e lo deve fare l’autorità amministrativa competente, cioè il ministro delle infrastrutture Lupi. Tanto è vero che, cogliendo i nostri appelli il viceministro Nencini e il medesimo Lupi (una sola volta) avevano annunciato l’avvio della «due diligence», di cui, però, non si è saputo più nulla.
Non c’è dubbio che Lupi scherzi con il fuoco. Era proprio il momento di mostrare agli italiani che l’Amministrazione sa come mettere in evidenza malversazioni e ruberie e come rimettere procedure e lavori sui giusti binari.
Una «due diligence» avrebbe consentito di definire le dimensioni del rubato addebitandone le responsabilità alle persone giuridiche e fisiche che hanno inventato e realizzato il malaffare. E avrebbe, soprattutto, permesso di definire in modo attendibile le reali occorrenze finanziarie per completare l’opera e liberare Venezia dalla biblica condanna delle acque alte.
Invece, nulla.
E nulla sull’esigenza di commissariare il Magistrato alle acque, il Consorzio Venezia Nuova e le imprese consorziate, compresa la Technital, monopolista delle progettazioni.
È vero che, da diversi mesi, da quando cioè a Venezia si cominciò a capire che tutto stava per venire fuori, il presidente e il direttore generale del consorzio sono stati cambiati e che essi non hanno poco a che fare con il passato tranne l’incontestabile fatto che sono stati nominati dalle stesse imprese che hanno messo in piedi il meccanismo illecito. Nulla, comunque, vietava che entrambi o uno di loro diventasse il commissario del Consorzio con i compiti specifici attribuiti in questi casi a coloro che sono incaricati di rimettere le cose a posto.
Certo, anche l’autorità giudiziaria sul tema commissariamento sembra insensibile. Una sua iniziativa in questa direzione, infatti, eliminerebbe ogni indugio e ogni tentativo di coprire con la spessa coltre dell’indifferenza burocratica ciò che è successo e ciò che potrebbe succedere.
Sin qui un’occasione persa per la necessaria pulizia e per mostrare agli italiani e agli osservatori stranieri che, per Venezia, sono tanti e occhiuti, come si può, nella legalità, completare un’opera di ingegneria che rimarrà negli annali della storia idraulica.