5 ott 2014

un appunto sul nuovo articolo di domenico Cacopardo


LE PICCOLE MANOVRE di domenico cacopardo

I tempi delle grandi manovre politiche e militari è terminato con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico. Restano quelle economiche che, per esaurimento di margini, stanno diventando «manovrine».

La medesima ascesa al governo del Paese di Matteo Renzi è il piccolo frutto di una piccola operazione interna al Pd, le primarie. A esse hanno partecipato 2.814.881 persone, compresi gli extracomunitari (cioè privi di cittadinanza), su un elettorato complessivo di 50.449.979 (Camera dei deputati). Renzi ha ottenuto il 67,5% dei voti.

Insomma, tanto per chiarire, i partecipanti alle primarie rappresentano meno del 5,57% degli elettori (vista la partecipazione di extracomunitarti) e i voti di Renzi ammontano a circa 2.390.000 unità, pari al 4,7% degli elettori complessivi.

Su questi numeri è fondata la pretesa del capo del Pd, accolta da Napolitano, di assumere la direzione del governo senza passare attraverso una consultazione generale. 

Questo la dice lunga sull’emergenza nazionale, sugli errori del presidente della Repubblica, che dal luglio 2011, ha perso la bussola democratica che dovrebbe orientarne le decisioni, sul precoce ruolo affidato all’exsindaco di Firenze e sul gap di autorevolezza che, quotidianamente, paghiamo sullo scenario domestico e su quello internazionale.

Non si tratta di poca cosa, visto che l’approccio sbagliato con l’Unione europea, nella fase di ricambio della Commissione, ci costerà, comunque, caro. Tanto per chiarire le responsabilità che ricadono sul «premier» e sul partito che lo ha espresso, si trattava di una occasione storica, unica per tempistica e contenuti.

L’Italia aveva un giovane primo ministro, in qualche modo vergine di un passato di flebili distinguo e di sostanziali accondiscendenze, che aveva ottenuto un insperato successo nelle elezioni europee. Nell’equilibrio continentale, se i socialisti avevano perso, i socialisti italiani avevano conquistato con i numeri la maggioranza relativa del loro gruppo parlamentare e una forza ineguagliata. Era il momento in cui dovevano essere posti sul tappeto i problemi che risultavano irrisolti e dannosi per gli interessi dell’Italia.

Già, è inutile illudersi: a Bruxelles ognuno fa i propri interessi nazionali. Ho visto la Commissione bloccata per due mesi da Margareth Tathcher per una questione di una valore complessivo, in lire, di 200.000 milioni. Ognuno negozia sino alla morte, sapendo che la regola dell’unanimità costringe tutti ad ascoltare le ragioni di tutti. Anche la Merkel, affrontata con la giusta decisione, i giusti numeri nei dossier, deve ascoltare e, se necessario compiere marce indietro.

Ma il nostro primo ministro non ama i numeri. Non ama i documenti. Non ama gli esperti. Non ama coloro che, essendo più vecchi di lui, conoscono il gioco e possono dargli utili suggerimenti. Potrebbero essere testimoni diretti dei suoi errori.

C’erano da ridefinire i confini della politica monetaria della Bce. Si tratta di confini che impediscono alla banca di operare come la Federal Reserve, come la Banca d’Inghilterra o del Giappone. 

Come disputare un incontro di boxe con un braccio legato dietro la schiena.

C’era da discutere il coordinamento delle politiche fiscali, per impedire il dumping, in cui sono specializzati l’Irlanda, l’Olanda e il Lussemburgo.

C’erano da stabilire le linee del grande piano infrastrutturale che avrebbe rimesso in moto l’industria del «Bâtiment», delle costruzioni cioè, quella a più alta intensità di mano d’opera che si conosca, e nella piena disponibilità degli stati, visto che altri strumenti, in un’economia di mercato, non ci sono.

Gli sciocchi che protestano chiedendo lavoro, gli ultimi «in maschera» a Napoli, chiedono, in realtà «posti» dello Stato, pagati dai cittadini senza alcun impegno di «lavoro». Insomma, pretendono il riconoscimento del diritto di essere parassiti. Qualcuno dovrebbe spiegarlo anche a sua santità Francesco I che non ci può essere lavoro senza produzione, distribuzione di denaro senza creazione di ricchezza.

Quindi, il programma infrastrutturale europeo, la cui dimensione iniziale non doveva essere inferiore ai 500 miliardi di euro, invece dei 300 di cui si parla, avrebbe mobilitato mano d’opera diretta e indiretta, fertilizzando le economie europee, a corto di idee e di risorse. C’era infine il capitolo «avanzamento dell’integrazione», col superamento della bocciatura della Costituzione del 2003, e la definizione di una serie di passi in avanti sulla via dell’Europa politica. Quell’Europa politica che potrebbe essere la risposta più efficace ad alcuni dei problemi esistenziali che ci affliggono.

Tutto questo è mancato da parte italiana. Altri, come Hollande, sono afflitti da nanismo politico. Altri ancora, sono semplici satelliti dell’egemone Germania, portata sempre, almeno negli ultimi tre secoli a strafare, conquistando una primazia ch’è sempre finita per essere un boomerang.

Ci sono i tempi e gli spazi per rimediare ?

In politica non è mai troppo tardi : ci vogliono uomini che sappiano usare numeri e argomenti.


 IMPRUDENTE  "DEUS EX MACHINA"  ..PIU' AVVENTATO CHE TEMERARIO

Ci vogliono anche idee..idee sane e costruttive al fine di far funzionare...non basta un determinismo!

I temi sociali sono delicati e non possono certo affrontarsi con questa prosopopea...nè attraverso una riduttiva semplificazione...Sarebbe utile maggior umiltà e meno chiacchiere!

In tutto questo..quello che più sorprende (come giustamente sottolinea Domenico) è l'atteggiamento del nostro Presidente della Repubblica, il cui affidamento totale alla figura del giovane sindaco d'Italia... difficilmente può più essere giustificato. Il nostro Presidente Napolitano, con tutto il rispetto che gli si deve, ormai è corresponsabile del gap di autorevolezza che, quotidianamente, paghiamo sullo scenario domestico e su quello internazionale.

L'affidamento “tout court” al giovane premier fiorentino che giorno per giorno si espone in una comunicazione fuori dalla realtà, rimane oggi per Napolitano un'arma a doppio taglio, rischiando ormai di fargli perdere ogni consenso ricevuto nel passato. 

Il sindaco d'Italia, grazie all'appoggio del Capo dello Stato, si presenta oggi come il “deus ex machina”

Sappiamo che nel teatro antico ogni situazione la più ingarbugliata, ogni intreccio che aveva tenuto col fiato sosteso lo spettatore, veniva alla fine sciolto dall'improvviso apparire di un nume(deus), calato in scena mediante un congegno meccanico(ex machina) per risolvere ogni cosa in nome del lieto fine. Se il ricorso a questo sbrigativo espediente, dal punto di vista artistico, è una dimostrazione di debolezza creativa, dal punto di vista politico.. in una democrazia, è l'errore peggiore. 

La locuzione deus ex machina è comunque rimasta per indicare una persona che riesce là dove altre hanno fallito o un'azione che sblocca una situazione difficile. Nel caso di Renzi è chiaro che la situazione difficile da risolvere resta quella governabilità, ma è tanto misero ...quanto insensato poter pensare che un qualunque “deus ex” machina” possa oggi risolvere un problema di governabilità, senza prima risolvere altri principi che possano accompagnarla funzionalmente. Né.. si può mai pensare che da solo si possano dirimere la montagna di problematiche esistenti attraverso un risoluto determinismo ed una ostentata semplificazione...

I risultati sono più che evidenti e non mancheranno ulteriori problematiche che per effetto del conseguente abbrivio, arriveranno.
vincenzo cacopardo

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