Con la vittoria di Siriza in Grecia, si certifica lo stato terminale della malattia che ha colpito l’idea d’Europa. Quell’idea che aveva vitalizzato il continente dal secondo dopoguerra sino alla fine del millennio.
Che l’Unione sia in questo stato lo dimostra l’arrestarsi, ormai più che ventennale nonostante vari velleitari tentativi, del processo di integrazione verso l’unità politica oltre che economica dei 27 stati. Nulla è stato compiuto
per l’armonizzazione fiscale; nulla per un apparato comune di difesa; nulla sul fronte dell’integrazione giudiziaria e della sicurezza; nulla sulle previdenze sociali e sull’assistenza sanitaria; nulla sulla gestione del biblico arrivo di gente dal Sud del Mediterraneo.
per l’armonizzazione fiscale; nulla per un apparato comune di difesa; nulla sul fronte dell’integrazione giudiziaria e della sicurezza; nulla sulle previdenze sociali e sull’assistenza sanitaria; nulla sulla gestione del biblico arrivo di gente dal Sud del Mediterraneo.
È come se, dopo una stagione di politici fortemente europeisti che hanno posposto l’interesse nazionale a quello comunitario, siano tornati in campo gli egoismi nazionali e gli interessi dei ceti parassitari sacrificando quelli dei cittadini. Il medesimo allargamento dell’Unione, avvenuto il 13 dicembre del 2002, sotto la presidenza di Romano Prodi, è stato un colpo mortale (da cui non s’è più ripresa) alla governabilità dell’esecutivo comunitario, soggetto al vincolo dell’unanimità di voto delle 27 nazioni componenti.
Il tentativo di formulare una Costituzione, redatta nel 2003 dalla Convenzione europea, bloccato dai referendum francese e olandese, è stato definitivamente abbandonato nel 2009. Il successivo trattato di Lisbona, sempre del 2009, non è stato un passo avanti, ha lasciato irrisolti tutti i problemi sul tappeto indicando solo le esigenze per il futuro che, regolarmente, la Commissione (il governo dell’Unione) e gli stati membri hanno disatteso, limitandosi all’imposizione di restrizioni finanziarie ed economiche che hanno consolidato il processo recessivo innescato dalla crisi americana del 2008.
Ai nostri giorni, con una Commissione dalle idee meno corte della precedente, ma pur sempre corte, si è, per la prima volta, parlato di flessibilità e di rilancio e, a questo fine, il presidente Junker ha annunciato un piano di investimenti di 25-30 miliardi, una goccia nel mare. Come curare con l’aspirina un attacco di polmonite fulminante.
Il medesimo «Quantitative easing», la rivoluzione da 1.200 miliardi, decisa dalla Bce, guidata da Mario Draghi, che inizierà a marzo al ritmo di 60 mld al mese è un annuncio idoneo a confondere le idee dei cittadini del continente. Come ha spiegato bene Riccardo Ruggeri sulle colonne di questo giornale, la Bce non acquisterà titoli di Stato direttamente dagli stati che li emetteranno, ma dalle banche. Come se uno di noi si presentasse da un concessionario di automobili e invece di comprare un’auto nuova (con il che si aiuterebbe la produzione), ne comprasse una di quelle usate, con il che si aiuta il concessionario, cioè le banche. Cioè il principale, le banche, responsabile della recessione in corso, visto che alla disponibilità di capitali a costo vicino allo zero non fanno seguito investimenti e prestiti a prezzi convenienti.
Nella crisi, il sistema si è occupato solo delle banche ricapitalizzandole, rendendole beneficiarie di crediti, insomma di risorse immeritate. Beneficiarie né legittimate da un ruolo di rilancio né, purtroppo, dall’etica, largamente disattesa.
I racconti dei tempi di gente come Mattioli o Rondelli non sono più riferibili ai rapaci banchieri dei nostri giorni, con i portafogli gonfi, quando le istituzioni da loro dirette erano in sofferenza. Con una protezione (del silenzio) inattesa (Monte Paschi), in un Paese nel quale anche le registrazioni delle esigenze corporali degli intercettati vengono diffuse al grande pubblico.
Certo, alla fine qualcosa dei 1.200 mld di Draghi andrà al sistema produttivo. Ma dopo avere ancora ingrassato le banche. Sarà proprio da vedere se la ripresa e l’inflazione avranno luogo e in che misura, visto che non c’è un elemento che possa invogliare chi potrebbe investire a farlo.
Siriza, da questo punto di vista, è un bel contributo alla paura e alla stagnazione.
A proposito dei sirizisti di casa nostra, quest’accolta di mezzi falliti, ammiratori di Maduro, Castro e della de Kirchner (obbligatorio il ‘de’ nobiliare), incapaci di vedere il mondo con gli occhi della realtà: che succederà dei 44 miliardi di euro che l’Italia ha prestato alla Grecia?
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