31 gen 2015

Una nota di domenico Cacopardo su Mattarella

di domenico cacopardo
C’è una logica inoppugnabile nell’azione di Matteo Renzi in vista dell’elezione del presidente della Repubblica. Stretto tra la fronda del Pd sulle ultime scelte legislative («jobs act» e «italicum») e il desiderio di Berlusconi di concordare un nome, non poteva che scegliere di ricompattare il suo partito.
Questo gli ha permesso di guidare un vasto fronte, la maggioranza relativa dei grandi elettori, e di aggregare a esso i voti necessari per raggiungere il «quorum» alla quarta votazione, cioè oggi.
D’altra parte, l’abbraccio di Berlusconi, in questo caso, sarebbe stato «l’abbraccio che uccide», il passo che gli avrebbe consegnato per sempre le sorti di Renzi e del suo governo.
La situazione, quindi, non poteva che evolvere in questa direzione e chi (Alfano&C) ha pensato di stringersi al cavaliere per ridimensionare il peso del «premier-segretario» ha sbagliato in matematica e in grammatica: il gioco, oggi, domani e dopodomani, è saldamente nelle mani del boy-scout fiorentino ed è lui lo snodo dal quale occorre partire per sperare in un qualsiasi, significativo ruolo politico.
Perché Mattarella e non altri, come Veltroni o Fassino cui l’assemblea dei grandi elettori Pd non avrebbe potuto dire di no, acclamandoli come ha acclamato l’attuale candidato? Veltroni, avendo una spiccata capacità comunicazionale, insieme a una instabilità congenita (una specie di Badoglio del Pds-Ds, due fughe dalla segreteria per il timore di perdere una battaglia), si presentava come un triplice rischio: fare ombra a Renzi, non garantire la tenuta in circostanze critiche, essere il possibile bersaglio di una vasta frangia di franchi tiratori. Anche Fassino, nonostante l’acclamazione, sarebbe stato facile vittima del segreto dell’urna.
Mattarella è un solido parlamentare di scuola democristiana, nella tradizione del cattolicesimo liberale entrato nella politica italiana nel 1913, con il patto Giolitti-Gentiloni (Ottorino). È una persona garbata, ma ferma nelle proprie convinzioni. Nella lunga attività parlamentare e di governo s’è sempre dimostrato un abile tessitore: ha condotto in porto un buon compromesso tra chi voleva il maggioritario puro e chi era legato al proporzionale realizzando la legge che porta il suo nome, il Mattarellum, eliminato poi, nel 2005 dal Porcellum, cassato dalla Corte costituzionale.
Palermitano (sarà, se eletto, il primo presidente siciliano), figlio del potente Bernardo Mattarella, ha studiato con il fratello Piersanti, assassinato da mano mafiosa, dai gesuiti. Quei gesuiti che, in Sicilia, recano il fardello di avere rappresentato dal Settecento in poi l’ala avanzata e, come dire, progressista della chiesa isolana, e che nelle loro scuole hanno forgiato parte importante della classe dirigente cattolica. Va ricordato, per esempio, il ruolo svolto da Pippo Campione, anche lui allievo dei gesuiti, ma del Sant’Ignazio di Messina, nella «pulizia» e nel rinnovamento di casa Dc.
Naturalmente, la ciambella non è perfetta per Renzi: se sarà eletto, il nuovo capo dello Stato, che ha idee ben chiare in campo del diritto costituzionale, difficilmente accetterà i fantasiosi e improbabili testi legislativi licenziati dal governo e, in qualche caso, dal Parlamento. L’«Italicum», per esempio, fortemente viziato dal punto di vista della Costituzione, difficilmente otterrà, nell’attuale versione, la firma di un uomo come Mattarella.
Ed è da mettere in conto che, stamattina votando, qualche elettore del Pd, per fare dispetto al «capo» si faccia venire un crampo alla mano. Non dovrebbero, comunque, esserci problemi e Sergio Mattarella (ormai per tutti solo Sergio) dovrebbe ottenere i voti necessari.
Alfano deve cambiare idea e in fretta: i rischi che corre sono politicamente mortali. Anche Berlusconi dovrebbe votare. Non astenersi, ma votare. Il patto del Nazareno è, prima di tutto, una garanzia di esistenza politica per lui. Poi, è un forte aiuto anche per Renzi, al quale ha permesso e permetterà di attuare una proficua politica dei due-tre forni.

Infine, a Roma Francesco, il papa, «nero» in quanto gesuita, si troverà vicino un presidente della stessa scuola. Forgiato però alla sobrietà e all’«understatement», doti, queste, delle grandi elite che hanno governato con polso fermo i momenti delicati della Storia.

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