C’è
una logica inoppugnabile nell’azione di Matteo Renzi in vista
dell’elezione del presidente della Repubblica. Stretto tra la
fronda del Pd sulle ultime scelte legislative («jobs act» e
«italicum») e il desiderio di Berlusconi di concordare un nome, non
poteva che scegliere di ricompattare il suo partito.
Questo
gli ha permesso di guidare un vasto fronte, la maggioranza relativa
dei grandi elettori, e di aggregare a esso i voti necessari per
raggiungere il «quorum» alla quarta votazione, cioè oggi.
D’altra
parte, l’abbraccio di Berlusconi, in questo caso, sarebbe stato
«l’abbraccio che uccide», il passo che gli avrebbe consegnato per
sempre le sorti di Renzi e del suo governo.
La
situazione, quindi, non poteva che evolvere in questa direzione e chi
(Alfano&C) ha pensato di stringersi al cavaliere per
ridimensionare il peso del «premier-segretario» ha sbagliato in
matematica e in grammatica: il gioco, oggi, domani e dopodomani, è
saldamente nelle mani del boy-scout fiorentino ed è lui lo snodo dal
quale occorre partire per sperare in un qualsiasi, significativo
ruolo politico.
Perché Mattarella
e non altri, come Veltroni o Fassino cui l’assemblea dei grandi
elettori Pd non avrebbe potuto dire di no, acclamandoli come ha
acclamato l’attuale candidato? Veltroni, avendo una spiccata
capacità comunicazionale, insieme a una instabilità congenita (una
specie di Badoglio del Pds-Ds, due fughe dalla segreteria per il
timore di perdere una battaglia), si presentava come un triplice
rischio: fare ombra a Renzi, non garantire la tenuta in circostanze
critiche, essere il possibile bersaglio di una vasta frangia di
franchi tiratori. Anche Fassino, nonostante l’acclamazione, sarebbe
stato facile vittima del segreto dell’urna.
Mattarella
è un solido parlamentare di scuola democristiana, nella tradizione
del cattolicesimo liberale entrato nella politica italiana nel 1913,
con il patto Giolitti-Gentiloni (Ottorino). È una persona garbata,
ma ferma nelle proprie convinzioni. Nella lunga attività
parlamentare e di governo s’è sempre dimostrato un abile
tessitore: ha condotto in porto un buon compromesso tra chi voleva il
maggioritario puro e chi era legato al proporzionale realizzando la
legge che porta il suo nome, il Mattarellum, eliminato poi, nel 2005
dal Porcellum, cassato dalla Corte costituzionale.
Palermitano
(sarà, se eletto, il primo presidente siciliano), figlio del potente
Bernardo Mattarella, ha studiato con il fratello Piersanti,
assassinato da mano mafiosa, dai gesuiti. Quei gesuiti che, in
Sicilia, recano il fardello di avere rappresentato dal Settecento in
poi l’ala avanzata e, come dire, progressista della chiesa isolana,
e che nelle loro scuole hanno forgiato parte importante della classe
dirigente cattolica. Va ricordato, per esempio, il ruolo svolto da
Pippo Campione, anche lui allievo dei gesuiti, ma del Sant’Ignazio
di Messina, nella «pulizia» e nel rinnovamento di casa Dc.
Naturalmente,
la ciambella non è perfetta per Renzi: se sarà eletto, il nuovo
capo dello Stato, che ha idee ben chiare in campo del diritto
costituzionale, difficilmente accetterà i fantasiosi e improbabili
testi legislativi licenziati dal governo e, in qualche caso, dal
Parlamento. L’«Italicum», per esempio, fortemente viziato dal
punto di vista della Costituzione, difficilmente otterrà,
nell’attuale versione, la firma di un uomo come Mattarella.
Ed
è da mettere in conto che, stamattina votando, qualche elettore del
Pd, per fare dispetto al «capo» si faccia venire un crampo alla
mano. Non dovrebbero, comunque, esserci problemi e Sergio Mattarella
(ormai per tutti solo Sergio) dovrebbe ottenere i voti necessari.
Alfano
deve cambiare idea e in fretta: i rischi che corre sono politicamente
mortali. Anche Berlusconi dovrebbe votare. Non astenersi, ma votare.
Il patto del Nazareno è, prima di tutto, una garanzia di esistenza
politica per lui. Poi, è un forte aiuto anche per Renzi, al quale ha
permesso e permetterà di attuare una proficua politica dei due-tre
forni.
Infine,
a Roma Francesco, il papa, «nero» in quanto gesuita, si troverà
vicino un presidente della stessa scuola. Forgiato però alla
sobrietà e all’«understatement», doti, queste, delle grandi
elite che hanno governato con polso fermo i momenti delicati della
Storia.
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