3 giu 2015

una nota del consigliere Cacopardo sulla recenti elezioni regionali

Se c’è una materia opinabile, almeno nei commenti di politologi ed editorialisti, questa è il risultato delle elezioni, sempre, sempre, ma soprattutto in Italia, estensibile come un tessuto gommoso.
Invece, per gli addetti ai lavori, i pochi che sanno che «la politica è una scienza esatta», l’esito delle elezioni deve essere esaminato in profondità per capire le sue valenze positive e negative e trarne indicazioni per il prossimo giro.
Proviamo anche noi a trarre alcune prime conclusioni.
Il primo sconfitto, il più grande, quello indiscutibile, è l’istituto regionale. Una partecipazione di circa il 50% mostra disinteresse nei confronti di assemblee e presidenti-governatori, logorati da decenni di malgoverno, di clientele e di evidenti fallimenti.
Già l’istituto era nato come un ibrido, estraneo alla storia patria, figlio del solidarismo cattolico (clamorosamente bocciato dai profondi mutamenti degli ultimi cinquant’anni) e del disegno di potere del Pci costituente, che aveva scelto una strategia periferica di conquista dello Stato. La pratica attuazione dell’istituto regionale avvenne nel 1970, dopo una stagione, gli anni ‘60, dominati dal mito illuministico della programmazione, un’idea dei socialisti ispirata dalla voglia di simildirigismo sovietico.
Nella realtà di questi trentacinque anni, le regioni si sono comportate in modo irresponsabile, mettendo in scena una grave imitazione dei vizi dello Stato centrale, dal clientelismo più spinto, alla dissipazione di quote crescenti delle risorse pubbliche, senza alcuna attenzione ai vincoli di bilancio. E ciò non riguarda solo le sciagurate regioni del Sud, prima fra tutte la Campania, nella quale la regione di Bassolino investì anche in formazione professionale di veline, e la Calabria, per molti versi addirittura peggio dell’amministrazione partenopea, ma anche le esibite (a torto) Lombardia ed Emilia-Romagna.
Renzi deve prendere atto dell’orientamento popolare e incidere in modo più deciso sul titolo III della Costituzione a scapito delle competenze e del ruolo delle regioni: una scelta determinante per tagliare le uscite dello Stato e, di conseguenza, tassazione e debito pubblico.
Il presidente del consiglio rifletterà anche sulle sue sconfitte personali. La prima riguarda il personale raccogliticcio e impreparato (in gran parte di provenienza bersaniana, saltato sul suo carro) cui si è appoggiato, dalla Moretti alla Paita a coloro che, immeritatamente, siedono nel governo. L’inesorabilità della politica ne mette in rilievo l’inidoneità a svolgere un ruolo significativo. Occorre perciò mettere mano ai «minus», dall’ectoplasma Madia, alla medesima Serracchiani, in eccesso di esposizione televisiva, capace di un’affermazione demenziale e azzardata come «Il Pd chiederà a tutti i suoi eletti di sottoscrivere un impegno a dimettersi in caso di ricevimento di un avviso di garanzia», per dare al volto del governo lineamenti accattivate e reale efficienza. L’inconsapevole Serracchiani, così, ha concesso a chiunque vorrà colpire un eletto in qualsiasi organismo, il potere di rimuoverlo a prescindere da ogni considerazione specifica, di merito.
La seconda concerne l’insufficiente rinnovamento del partito, ancora, nella nomenklatura, lontano da un’adesione convinta alla linea del suo leader. E qui, si innestano i casi Bindi (che non può passare sotto silenzio) e Bersani esibitosi in un’insostenibile solidarietà all’esasperato radicalismo della presidente dell’Antimafia.
Se Renzi intende portare il Pd alle elezioni politiche perché governi il Paese per un altro quinquennio avrà molto da lavorare.
I confronti circolati con il 40% delle europee è fuorviante. Nelle regionali, si confezionano, intorno ai candidati, numerose liste di appoggio, con il compito di moltiplicare il numero di coloro che, volendo conquistare elettori ottengono, comunque, un sicuro effetto mobilitativo. Le regionali ci danno, in fin dei conti, un Pd non sconfitto. Se Renzi giocherà bene le sue carte, le possibilità di vincere il 2018 si consolideranno. Soprattutto se gli riuscirà l’operazione «Partito della nazione.»
Questo significa che le minoranze di quel partito scivoleranno ulteriormente nell’insignificanza e nell’inesistenza politica.
Va male il Nuovo Centro Destra: e questo è un problema che si deve porre il «premier». La sua gamba moderata non può essere amputata. Il prossimo rimpasto ne deve tenere conto.
Perde Berlusconi con la sua ultima «raffica». Il risultato di Toti è esclusivamente dovuto alla divisione del centro-sinistra e all’apporto delle truppe cammellate di Salvini. Non può essere un’indicazione per la ricostruzione di un centro-destra con «chanche» di ripresa.
Anche la presunta vittoria di Grillo è discutibile: se il movimento contestativo si ferma intorno al 20%, è evidente che non ha capacità di mobilitazione. Anzi la sua capacità di mobilitazione è così scarsa e scadente da limitarsi, in pratica, a un 10% dell’elettorato (avendo votato solo il 50% degli aventi diritto). Probabilmente, alle politiche, la sua presenza aiuterà Renzi a raggiungere il quorum prima del ballottaggio.
Non è discutibile il successo di Salvini. Non entriamo nel merito della sua proposta politica, ma osserviamo che questo successo non ha nessuna possibilità di trasformarsi in proposta di governo se non all’interno di un rinnovato centro-destra, diretto da una credibile e giovane leadership. Per quanti sforzi possa fare, dunque, il destino di Salvini è quello di agitatore xenofono e di satellite di un partito forte diverso dal suo.
Nei prossimi giorni, dopo il rimpasto di governo ormai non più rinviabile e le novità alla testa del Pd, capiremo meglio il percorso del Paese da qui al 2018.

Domenico Cacopardo

Nessun commento:

Posta un commento