Se c’è
una materia opinabile, almeno nei commenti di politologi ed
editorialisti, questa è il risultato delle elezioni, sempre, sempre,
ma soprattutto in Italia, estensibile come un tessuto gommoso.
Invece, per
gli addetti ai lavori, i pochi che sanno che «la politica è una
scienza esatta», l’esito delle elezioni deve essere esaminato in
profondità per capire le sue valenze positive e negative e trarne
indicazioni per il prossimo giro.
Proviamo
anche noi a trarre alcune prime conclusioni.
Il primo
sconfitto, il più grande, quello indiscutibile, è l’istituto
regionale. Una partecipazione di circa il 50% mostra disinteresse nei
confronti di assemblee e presidenti-governatori, logorati da decenni
di malgoverno, di clientele e di evidenti fallimenti.
Già
l’istituto era nato come un ibrido, estraneo alla storia patria,
figlio del solidarismo cattolico (clamorosamente bocciato dai
profondi mutamenti degli ultimi cinquant’anni) e del disegno di
potere del Pci costituente, che aveva scelto una strategia periferica
di conquista dello Stato. La pratica attuazione dell’istituto
regionale avvenne nel 1970, dopo una stagione, gli anni ‘60,
dominati dal mito illuministico della programmazione, un’idea dei
socialisti ispirata dalla voglia di simildirigismo sovietico.
Nella
realtà di questi trentacinque anni, le regioni si sono comportate in
modo irresponsabile, mettendo in scena una grave imitazione dei vizi
dello Stato centrale, dal clientelismo più spinto, alla dissipazione
di quote crescenti delle risorse pubbliche, senza alcuna attenzione
ai vincoli di bilancio. E ciò non riguarda solo le sciagurate
regioni del Sud, prima fra tutte la Campania, nella quale la regione
di Bassolino investì anche in formazione professionale di veline, e
la Calabria, per molti versi addirittura peggio dell’amministrazione
partenopea, ma anche le esibite (a torto) Lombardia ed
Emilia-Romagna.
Renzi deve
prendere atto dell’orientamento popolare e incidere in modo più
deciso sul titolo III della Costituzione a scapito delle competenze e
del ruolo delle regioni: una scelta determinante per tagliare le
uscite dello Stato e, di conseguenza, tassazione e debito pubblico.
Il
presidente del consiglio rifletterà anche sulle sue sconfitte
personali. La prima riguarda il personale raccogliticcio e
impreparato (in gran parte di provenienza bersaniana, saltato sul suo
carro) cui si è appoggiato, dalla Moretti alla Paita a coloro che,
immeritatamente, siedono nel governo. L’inesorabilità della
politica ne mette in rilievo l’inidoneità a svolgere un ruolo
significativo. Occorre perciò mettere mano ai «minus»,
dall’ectoplasma Madia, alla medesima Serracchiani, in eccesso di
esposizione televisiva, capace di un’affermazione demenziale e
azzardata come «Il Pd chiederà a tutti i suoi eletti di
sottoscrivere un impegno a dimettersi in caso di ricevimento di un
avviso di garanzia», per dare al volto del governo lineamenti
accattivate e reale efficienza. L’inconsapevole Serracchiani, così,
ha concesso a chiunque vorrà colpire un eletto in qualsiasi
organismo, il potere di rimuoverlo a prescindere da ogni
considerazione specifica, di merito.
La seconda
concerne l’insufficiente rinnovamento del partito, ancora, nella
nomenklatura, lontano da un’adesione convinta alla linea del suo
leader. E qui, si innestano i casi Bindi (che non può passare sotto
silenzio) e Bersani esibitosi in un’insostenibile solidarietà
all’esasperato radicalismo della presidente dell’Antimafia.
Se Renzi
intende portare il Pd alle elezioni politiche perché governi il
Paese per un altro quinquennio avrà molto da lavorare.
I
confronti circolati con il 40% delle europee è fuorviante. Nelle
regionali, si confezionano, intorno ai candidati, numerose liste di
appoggio, con il compito di moltiplicare il numero di coloro che,
volendo conquistare elettori ottengono, comunque, un sicuro effetto
mobilitativo. Le regionali ci danno, in fin dei conti, un Pd non
sconfitto. Se Renzi giocherà bene le sue carte, le possibilità di
vincere il 2018 si consolideranno. Soprattutto se gli riuscirà
l’operazione «Partito della nazione.»
Questo
significa che le minoranze di quel partito scivoleranno ulteriormente
nell’insignificanza e nell’inesistenza politica.
Va male il
Nuovo Centro Destra: e questo è un problema che si deve porre il
«premier». La sua gamba moderata non può essere amputata. Il
prossimo rimpasto ne deve tenere conto.
Perde
Berlusconi con la sua ultima «raffica». Il risultato di Toti è
esclusivamente dovuto alla divisione del centro-sinistra e
all’apporto delle truppe cammellate di Salvini. Non può essere
un’indicazione per la ricostruzione di un centro-destra con
«chanche» di ripresa.
Anche la
presunta vittoria di Grillo è discutibile: se il movimento
contestativo si ferma intorno al 20%, è evidente che non ha capacità
di mobilitazione. Anzi la sua capacità di mobilitazione è così
scarsa e scadente da limitarsi, in pratica, a un 10% dell’elettorato
(avendo votato solo il 50% degli aventi diritto). Probabilmente, alle
politiche, la sua presenza aiuterà Renzi a raggiungere il quorum
prima del ballottaggio.
Non è
discutibile il successo di Salvini. Non entriamo nel merito della sua
proposta politica, ma osserviamo che questo successo non ha nessuna
possibilità di trasformarsi in proposta di governo se non
all’interno di un rinnovato centro-destra, diretto da una credibile
e giovane leadership. Per quanti sforzi possa fare, dunque, il
destino di Salvini è quello di agitatore xenofono e di satellite di
un partito forte diverso dal suo.
Nei
prossimi giorni, dopo il rimpasto di governo ormai non più
rinviabile e le novità alla testa del Pd, capiremo meglio il
percorso del Paese da qui al 2018.
Domenico
Cacopardo
Nessun commento:
Posta un commento