Il caso
Marino non è chiuso: ne sentiremo ancora parlare per qualche tempo,
soprattutto in termini di caso
umano. Poi, il professore
dovrebbe rinfoderare le velleità politiche e tornare alla scienza,
dalla quale proviene e dalla quale si è inopinatamente allontanato.
Le
questioni che ha sollevato, nel dimettersi, il sindaco di Roma sono
quattro.
La prima
consiste nel tentativo di esercitare il vecchio e abusato ricatto
morale: «Io sono contro la
mafia. Chi mi è nemico è amico della mafia.» Ovviamente, si tratta
di un cinico stilema che dovrebbe spingere i critici e gli oppositori
nella melma della mafiosità. Dovranno stare attenti i responsabili
politici della capitale (compresi i vergini
a 5 Stelle) a entrare nella
strada scivolosa del distinguere sempre e comunque tra mafiosi e
antimafiosi. Roma non è una città mafiosa, anche se il crimine vi
si è ampiamente insediato a opera di bande locali e non. È una
città con mille problemi derivanti dal passato e dal presente e da
una serie di ipocrisie che hanno consentito a gruppi affaristici con
connotazioni criminali di prosperare. Una delle prime operazioni da
compiere, è quella di scavare nel complesso e articolato mondo della
cooperazione che, come abbiamo visto, si è lasciato facilmente
infiltrare. E, per la macchina comunale, insistere sino
all’esasperazione nell’operazione trasparenza,
nella quale va introdotto il confronto patrimoniale dei dirigenti
(gli ingiustificati arricchimenti personali e familiari).
La seconda
questione sollevata riguarda il rapporto con la maggioranza Pd-Sel,
messa sotto accusa, in quanto spettatrice poco attenta e poco
impegnata nel sostegno (per la lotta alla mafia) al sindaco e alla
sua giunta. Le condizioni
politiche per continuare il
percorso di cambiamento (antimafioso) sono quindi venute meno.
Anche qui,
siamo alle prese con un artificio retorico per scaricare su altri
responsabilità e colpe che sono proprie del sindaco. Fra
parentesi, ma non tanto, Marino, interrompendo, se l’ha interrotto,
l’andazzo paramafioso, ha compiuto solo una parte del proprio
dovere, visto che, per la rimozione dei responsabili dei dipartimenti
coinvolti nel malaffare, si è dovuto aspettare una fin troppo
benevola relazione del prefetto di Roma Franco Gabrielli.
La terza
asserzione, connessa alle precedenti, ribadisce il tema del
cambiamento. Dice il primo cittadino (ancora in carica): «… ho
impostato cambiamenti epocali, ho cambiato un sistema di governo
basato sull’acquiescenza alle lobbies,
ai poteri anche criminali …» Quindi, coloro che gli hanno voluto
imporre le dimissioni sono espressione di quelle lobbies
e di quei poteri criminali. Una
primitiva concezione duale della società e del mondo: buoni-cattivi,
bianco-nero. Un pensare manicheo, utile a un’autoassoluzione più
che a un’analisi critica dell’accaduto e dei due anni e mezzo di
governo cittadino.
Quarta, ma
non ultima, la minaccia di
revocare le dimissioni entro 20 giorni.
Anche se
tutta la rancorosa (era difficile che non lo fosse) dichiarazione di
Ignazio Marino è impostata sul già segnalato contrasto buono (lui
medesimo) cattivi (mafiosi e alleati), quest’ultima affermazione ha
il senso di una minaccia proprio in stile mafioso. Lo capisce
anche un bambino che i 20 giorni, legati alla presenza di numerose
agende contenenti la lista dei favori
richiestigli e dei nomi dei
richiedenti, rappresentano, nelle intenzioni del sindaco, una pistola
puntata verso il Pd, in vista di un nebuloso futuro politico.
Proprio per
ciò che abbiamo analiticamente esposto, il caso Marino sarà presto
chiuso. Con altre ferite. Con altre minacce. Con altre accuse. Ma
senza alcuna possibilità di un ritorno all’onore delle cronache
politiche.
Restano sul
terreno varie vittime, oltre i cittadini romani alle prese con gli
aggravati problemi quotidiani, dalla pulizia delle strade, alla
viabilità, ai servizi cittadini. La vittima
principale si chiama Matteo Orfini. Per ragioni che non sono ancora
chiare, scoppiato lo scandalo di Mafia capitale, il giovane poulet
di quella che fu la nobile scuola di D’Alema, s’è infilato nella
mischia, accettando (o forse rivendicando) la nomina a commissario
del suo partito romano, quello in cui era nato e cresciuto
politicamente. Sia lui che Matteo Renzi hanno ignorato l’aurea
regola di indicare sempre come risanatore di una situazione
compromessa un soggetto estraneo al contesto. Cosa che,
fisiologicamente, Orfini non era. E Matteo Renzi ha anche ignorato un
altro antico, ma sempre attuale adagio: è
meglio l’originale che l’imitazione. Ovviamente,
non nel senso che D’Alema sarebbe stato un commissario ben più
autorevole ed efficace (e lo sarebbe stato) di Orfini, ma nel senso
che nella vita vanno preferiti figure e protagonisti, rispetto a
copie e figuranti di ben diverso spessore.
Comunque, la difesa di
Marino (brutalmente ingrato) messa in campo da Orfini è
ingiustificabile: anche se ragioni politico-elettorali militavano per
il sostegno al sindaco, la realtà era sotto gli occhi di tutti e non
doveva essere ignorata. Se la chiusura della sua esperienza fosse
avvenuta prima, il logoramento sarebbe stato minore e le possibilità
di riproporsi più consistenti.
L’altra
vittima è il Pd romano. Sarà
capace Renzi di rigenerarlo per offrire ai cittadini della capitale
una credibile opzione diversa dal Movimento a 5 Stelle?
Il compito
è impossibile per le brevità dei tempi. Realisticamente, potrebbe
affidarsi all’usato sicuro,
cioè a Francesco Rutelli (le ragioni della sua sconfitta nel 2008
andrebbero approfondite), la cui esperienza in Campidoglio è stata
esemplare sia per il Giubileo 2000 che per il complesso di opere
avviate e realizzate, senza che il vento degli scandali sfiorasse lui
e la sua giunta. Sia per l’inaspettata efficienza (relativa) della
macchina municipale, mai come allora utilizzabile e presente. Oppure,
con un atto di grande coraggio, convergere su un uomo nuovo come
Marchini, la cui storia familiare può attirare il voto del Pd oltre
che quello delle forze di centro-destra prive di un candidato con
possibilità di vittoria. Se Marchini sfondasse con l’appoggio del
Pd, si tratterebbe di una mezza vittoria, sempre meglio di una totale
sconfitta. Tutto
questo, per evitare alla capitale un’esperienza grillina che
aggiungerebbe sciagura a sciagure.
Un’ultima
considerazione sul sindaco uscente: il complesso di notizie riguardo
ai suoi comportamenti e alle sue parole (dagli inviti per il viaggio
a Filadelfia, ai munifici mecenati, ai pranzi con esponenti vari, che
hanno tutti smentiti), se confermato anche dai riscontri giudiziari
sulle spese di rappresentanze, potrebbe delineare il quadro di una
mitomania. Sarebbe una patologia, i cui sintomi dovevano essere colti
da tempo.
Domenico
Cacopardo
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