10 ott 2015

Nuovo articolo del consigliere Cacopardo sul caso Marino

Il caso Marino non è chiuso: ne sentiremo ancora parlare per qualche tempo, soprattutto in termini di caso umano. Poi, il professore dovrebbe rinfoderare le velleità politiche e tornare alla scienza, dalla quale proviene e dalla quale si è inopinatamente allontanato.
Le questioni che ha sollevato, nel dimettersi, il sindaco di Roma sono quattro.
La prima consiste nel tentativo di esercitare il vecchio e abusato ricatto morale: «Io sono contro la mafia. Chi mi è nemico è amico della mafia.» Ovviamente, si tratta di un cinico stilema che dovrebbe spingere i critici e gli oppositori nella melma della mafiosità. Dovranno stare attenti i responsabili politici della capitale (compresi i vergini a 5 Stelle) a entrare nella strada scivolosa del distinguere sempre e comunque tra mafiosi e antimafiosi. Roma non è una città mafiosa, anche se il crimine vi si è ampiamente insediato a opera di bande locali e non. È una città con mille problemi derivanti dal passato e dal presente e da una serie di ipocrisie che hanno consentito a gruppi affaristici con connotazioni criminali di prosperare. Una delle prime operazioni da compiere, è quella di scavare nel complesso e articolato mondo della cooperazione che, come abbiamo visto, si è lasciato facilmente infiltrare. E, per la macchina comunale, insistere sino all’esasperazione nell’operazione trasparenza, nella quale va introdotto il confronto patrimoniale dei dirigenti (gli ingiustificati arricchimenti personali e familiari).
La seconda questione sollevata riguarda il rapporto con la maggioranza Pd-Sel, messa sotto accusa, in quanto spettatrice poco attenta e poco impegnata nel sostegno (per la lotta alla mafia) al sindaco e alla sua giunta. Le condizioni politiche per continuare il percorso di cambiamento (antimafioso) sono quindi venute meno.
Anche qui, siamo alle prese con un artificio retorico per scaricare su altri responsabilità e colpe che sono proprie del sindaco. Fra parentesi, ma non tanto, Marino, interrompendo, se l’ha interrotto, l’andazzo paramafioso, ha compiuto solo una parte del proprio dovere, visto che, per la rimozione dei responsabili dei dipartimenti coinvolti nel malaffare, si è dovuto aspettare una fin troppo benevola relazione del prefetto di Roma Franco Gabrielli.
La terza asserzione, connessa alle precedenti, ribadisce il tema del cambiamento. Dice il primo cittadino (ancora in carica): «… ho impostato cambiamenti epocali, ho cambiato un sistema di governo basato sull’acquiescenza alle lobbies, ai poteri anche criminali …» Quindi, coloro che gli hanno voluto imporre le dimissioni sono espressione di quelle lobbies e di quei poteri criminali. Una primitiva concezione duale della società e del mondo: buoni-cattivi, bianco-nero. Un pensare manicheo, utile a un’autoassoluzione più che a un’analisi critica dell’accaduto e dei due anni e mezzo di governo cittadino.
Quarta, ma non ultima, la minaccia di revocare le dimissioni entro 20 giorni.
Anche se tutta la rancorosa (era difficile che non lo fosse) dichiarazione di Ignazio Marino è impostata sul già segnalato contrasto buono (lui medesimo) cattivi (mafiosi e alleati), quest’ultima affermazione ha il senso di una minaccia proprio in stile mafioso. Lo capisce anche un bambino che i 20 giorni, legati alla presenza di numerose agende contenenti la lista dei favori richiestigli e dei nomi dei richiedenti, rappresentano, nelle intenzioni del sindaco, una pistola puntata verso il Pd, in vista di un nebuloso futuro politico.
Proprio per ciò che abbiamo analiticamente esposto, il caso Marino sarà presto chiuso. Con altre ferite. Con altre minacce. Con altre accuse. Ma senza alcuna possibilità di un ritorno all’onore delle cronache politiche.
Restano sul terreno varie vittime, oltre i cittadini romani alle prese con gli aggravati problemi quotidiani, dalla pulizia delle strade, alla viabilità, ai servizi cittadini. La vittima principale si chiama Matteo Orfini. Per ragioni che non sono ancora chiare, scoppiato lo scandalo di Mafia capitale, il giovane poulet di quella che fu la nobile scuola di D’Alema, s’è infilato nella mischia, accettando (o forse rivendicando) la nomina a commissario del suo partito romano, quello in cui era nato e cresciuto politicamente. Sia lui che Matteo Renzi hanno ignorato l’aurea regola di indicare sempre come risanatore di una situazione compromessa un soggetto estraneo al contesto. Cosa che, fisiologicamente, Orfini non era. E Matteo Renzi ha anche ignorato un altro antico, ma sempre attuale adagio: è meglio l’originale che l’imitazione. Ovviamente, non nel senso che D’Alema sarebbe stato un commissario ben più autorevole ed efficace (e lo sarebbe stato) di Orfini, ma nel senso che nella vita vanno preferiti figure e protagonisti, rispetto a copie e figuranti di ben diverso spessore. 
Comunque, la difesa di Marino (brutalmente ingrato) messa in campo da Orfini è ingiustificabile: anche se ragioni politico-elettorali militavano per il sostegno al sindaco, la realtà era sotto gli occhi di tutti e non doveva essere ignorata. Se la chiusura della sua esperienza fosse avvenuta prima, il logoramento sarebbe stato minore e le possibilità di riproporsi più consistenti.
L’altra vittima è il Pd romano. Sarà capace Renzi di rigenerarlo per offrire ai cittadini della capitale una credibile opzione diversa dal Movimento a 5 Stelle?
Il compito è impossibile per le brevità dei tempi. Realisticamente, potrebbe affidarsi all’usato sicuro, cioè a Francesco Rutelli (le ragioni della sua sconfitta nel 2008 andrebbero approfondite), la cui esperienza in Campidoglio è stata esemplare sia per il Giubileo 2000 che per il complesso di opere avviate e realizzate, senza che il vento degli scandali sfiorasse lui e la sua giunta. Sia per l’inaspettata efficienza (relativa) della macchina municipale, mai come allora utilizzabile e presente. Oppure, con un atto di grande coraggio, convergere su un uomo nuovo come Marchini, la cui storia familiare può attirare il voto del Pd oltre che quello delle forze di centro-destra prive di un candidato con possibilità di vittoria. Se Marchini sfondasse con l’appoggio del Pd, si tratterebbe di una mezza vittoria, sempre meglio di una totale sconfitta. Tutto questo, per evitare alla capitale un’esperienza grillina che aggiungerebbe sciagura a sciagure.
Un’ultima considerazione sul sindaco uscente: il complesso di notizie riguardo ai suoi comportamenti e alle sue parole (dagli inviti per il viaggio a Filadelfia, ai munifici mecenati, ai pranzi con esponenti vari, che hanno tutti smentiti), se confermato anche dai riscontri giudiziari sulle spese di rappresentanze, potrebbe delineare il quadro di una mitomania. Sarebbe una patologia, i cui sintomi dovevano essere colti da tempo.

Domenico Cacopardo

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