Un commento di Alberto Cacopardo
Potrei
sbagliarmi, ma mi sembra che la decisione di Monti di entrare in campo alle
prossime elezioni sia stata una mossa avventata. Avventata non solo dal punto
di vista della sua aspirazione a guidare il governo, ma soprattutto da quello
dell’interesse generale del paese.
Già nel settembre scorso, su mio blog, avevo argomentato
che la successione di Monti a se stesso era qualcosa di pressoché inevitabile.
Monti è stato ed è, in questo frangente storico in cui versa l’Italia, un
personaggio praticamente insostituibile.
E non per la
qualità delle sue scelte di politica fiscale (quali tagli e quali tasse), che
non sono state particolarmente felici, ma per tutt’altra ragione.
Gli atti
decisivi del professore sono stati soprattutto due, due atti la cui portata è
ben presente a tutti gli osservatori accorti, ma sfugge invece all’attuale
percezione dell’opinione pubblica (non sfuggirà agli storici). Il primo è stato
quando, nel dicembre 2011, poco dopo la chiusura della sua prima manovra, ha
dichiarato al mondo intero che di misure di austerità non c’era più bisogno e
ormai si trattava di passare alla “crescita”. Data l’entità obiettivamente
esigua della manovra (appena trenta miliardi su un debito già vicino ai
duemila), la pretesa era tutt’altro che scontata. L’avesse avanzata un
Berlusconi (o sia pure un Bersani) gli avrebbero riso dietro. Solo Monti,
grazie alla sua padronanza da insider
dei meccanismi dei mercati finanziari, al suo personale prestigio, al peso
delle sue relazioni internazionali e alla sua personale abilità, aveva i mezzi
per orchestrare l’accettazione di una svolta così audace da parte dei centri di
potere che contano in Germania, in America e a livello globale. Monti
dichiarava in pratica: non ci faremo trattare come la Grecia. Nessuno sa bene
come abbia fatto, ma è riuscito ad imporsi alla Merkel. E’ stata questa svolta
ad aprire la strada alle operazioni di rifinanziamento a lungo termine
inaugurate di lì a poco da Draghi, che, iniettando mille miliardi di liquidità
nel sistema bancario, misero il primo argine agli attacchi della speculazione
contro l’Italia.
Poi, quando
gli effetti dell’Ltro andarono inevitabilmente esaurendo e la speculazione
tornò all’attacco in primavera, Monti, anziché fare marcia indietro, rincarava
la dose e, fra maggio e giugno, puntava l’indice sul vero problema, la
necessità di contenere i tassi d’interesse. Invocando misure europee a questo
scopo, quello che fu chiamato il “muro anti-spread”. Era quel che, fino ad
allora, la Germania aveva sempre caparbiamente rifiutato. Ancora una volta,
nessuno sa bene come abbia fatto, ma Monti riusciva ad imporsi alla Merkel. Il
secondo punto di svolta arrivò con la frenetica e ambigua trattativa al vertice
europeo di Bruxelles del 28 e 29 giugno, in seguito alla quale il muro di
dinieghi opposto dalla Germania iniziò a sgretolarsi, aprendo la strada alle
trattative coperte del mese di luglio che sfociarono infine nella dichiarazione
di Draghi a Londra a fine mese: “believe me, it will be enough”. Quella che
segnò, in modo irreversibile, l’inizio dell’uscita dalla crisi.
E’ futile
chiedersi, come fanno tanti, se il merito sia stato più di Draghi o di Monti.
Le due cose sono strettamente collegate. Draghi non avrebbe mai potuto compiere
né la mossa del dicembre, né quella del luglio se non avesse avuto le spalle
coperte in Germania. E il riluttante assenso tedesco fu negoziato soprattutto
da Monti, non da Draghi, che ovviamente si occupò soprattutto, e con
considerevole abilità, delle modalità e delle forme con cui realizzare
l’obbiettivo.
Ecco quali
sono i veri meriti di Monti, non certo le sue scelte in fatto di Imu, di
benzina o di pensioni. Che tutto questo non sia sbandierato agli occhi
dell’opinione pubblica non può stupire: c’è stata una battaglia all’ultimo
sangue, condotta in guanti bianchi e per lo più nell’ombra. Nessuno dei poteri
che l’ha combattuta ha interesse a pubblicizzarla, né chi l’ha vinta, né chi
l’ha persa.
Quello che
conta è che Monti l’ha vinta: e che nessun altro avrebbe potuto condurre in
porto questa impresa che lui stesso definì “difficilissima”.
Perché
nessun altro? Perché chi comanda sui paesi del mondo non sono i governi, non
sono i politici, ma sono i potentati finanziari, pubblici e soprattutto
privati. E gli uomini che sono abbastanza addentro ai potentati finanziari da
poter compiere imprese come questa sono pochissimi. Questa è la tristissima
realtà. Questa è la realtà che rende Monti ancora indispensabile.
Dov’è dunque
la sua avventatezza?
Se Monti non
si fosse presentato in prima persona, avrebbe avuto la certezza, salvo
un’improbabile vittoria della destra, di riprendere il governo del paese. O in
veste di premier, qualora il centro-sinistra mancasse la maggioranza al senato,
o in veste almeno di prestigiosissimo plenipotenziario all’Economia in caso
contrario. Comunque avrebbe avuto il Pd nella sua maggioranza.
Adesso che
corre alle elezioni, nel primo caso otterrà al massimo lo stesso risultato, nel
secondo non si sa proprio come andrà a finire. Un governo di centro-sinistra
senza Monti sarebbe quanto meno un azzardo, uno contro Monti rischierebbe la
catastrofe.
Purtroppo,
in questo momento il futuro dell’Italia è ancora a rischio. Purtroppo è
interesse generale del paese che quest’uomo resti al comando della sua
economia. Chi scrive, come è ben chiaro a chi conosce questo blog, condivide
ben poco gli orientamenti politici di Monti. Ma in questo momento c’è una sola
priorità: impedire che si scateni un nuovo attacco all’Italia, che stavolta
potrebbe essere fatale. Troppo debole e incerto è lo scudo europeo, troppo
forti gli interessi contrari. Impedire il naufragio dell’Italia è il primo
passo indispensabile perché sia superato quell’assetto finanziario globale che
ha rapinato ai popoli la loro sovranità e ha innalzato una formidabile muraglia
contro la giustizia, l’equità e la democrazia.
Da questo
punto di vista dunque, schierandosi a queste elezioni per una delle parti in
causa anziché mantenere il suo profilo super
partes, Monti ha fatto una mossa avventata. Speriamo che non l’abbia a
rimpiangere.
Alberto Cacopardo