L'interessante analisi di Domenico Cacopardo circa le problematiche
inerenti la Pubblica Amministrazione..colgono nel segno e
corrispondono esattamente a ciò di cui il mio Forum si è spesso occupato.
Non v'è dubbio che debba essere compito della politica
controllare ed intervenire per dettare nuove iniziative in proposito.
Il concetto di innovazione non sembra affatto appartenere a questo
governo e la sua opera di riforme più che paradossale appare
sprovveduta e totalmente priva di idee.
Per
quanto riguarda la PubblicaAmministrazione e la conseguente
componente burocratica ormai radicalizzata.. si potrebbe comprendere
il tutto nel contenuto di una metafora già adoprata dal
sottoscritto: "Paragonando
il sistema in cui viviamo e nel quale ci rapportiamo, ad un campo sul
quale andrebbero coltivati i semi (nuove regole e principi
costituzionali di un nuovo sistema politico più utile). Il suo
frutto dovrebbe essere quello della “democrazia funzionale”. Ma
se il campo è malato, arato male, senza un’attenta concimazione,
il seme non crescerà mai bene ed il raccolto sarà inevitabilmente
il frutto di tutto ciò: un raccolto guasto (ovvero una democrazia
non definita), al quale si aggiungeranno i parassiti ( la burocrazia)
che divoreranno questo raccolto rendendo il campo una coltre ancora
più desolata."
Questa
metafora individua nel campo un "sistema" che andrebbe ricomposto in modo da potervi ripiantare i nuovi semi per l’attesa
e la crescita di un buon raccolto e per evitare l’arrivo di
qualsiasi altro parassita. Ma chi può farlo se non un contadino?...Come ugualmente ..chi può intervenire sul sistema
istituzionale e della pubblica Amministrazione.. se non la politica? Oggi
il parassita della “burocrazia” regna sovrano in un Paese che
soffre in concorrenza, crescita e funzionalità, la burocrazia sembra
persino esser fomentata da chi gestisce quello stesso potere
politico: Essa torna utile poiché, il disbrigo della stessa, rende
ancora più forza a chi, il potere, lo gestisce.
Se,
a questa, aggiungiamo l’assoluto e dilagante cinico pragmatismo
delle rigide ed immutevoli istituzioni, allora il Paese e la sua
società civile continueranno a perdurare in una realtà simile a
quella di un basso medioevo. Bisognerebbe spingersi verso un nuovo rinascimento, riarando il suddetto
campo per l’attesa del buon raccolto ed il rifiorire dei valori più
corretti utili alla società.
Questa
è l'unica vera ragione per la quale non si può che condannare
politicamente chiunque tra ministri, sottosegretari o alti dirigenti, i quali, se pur
passivamente e senza colpe dirette... assistono ancora inermi e succubi al
deterioramento di tale sistema amministrativo.
vincenzo cacopardo
Scrive Domenico Cacopardo
Le
sensazione è che le parole, critiche o positive, siano gettate al
vento. Nel mondo che, per ora, ha vinto le prime tappe di questo
paradossale «Giro d’Italia» non contano i contenuti, le norme, ma
soltanto gli annunci: riforma di questo, riforma di quello, purché
sia spendibile la parola riforma, tutto va bene anche se, in
concreto, non riforma nulla. A meno che non si tratti di questioni
che mettono in discussione la primazia di Renzi sul suo partito, sul
governo, sul Parlamento, sul Paese. Perciò, una sballata
trasformazione del Senato diventa la linea del Piave insieme alla
nuova legge elettorale, che consegnerà la Camera dei deputati nelle
mani del «premier» e dei suoi più fedeli seguaci, anche quelli che
non supererebbero i test «QI» (quoziente di intelligenza) in uso
nelle forza armate per il reclutamento dei militari.
Anzi,
meno sono autonomi di testa e di carattere meglio si adattano al
sistema cui aspira Matteo Renzi, più sono congeniali alla sua
«Weltanschauung» (visione del
mondo). Lo so, è eccessivo ritenere che il «premier» abbia
elaborato una «Weltanschauung», tuttavia, istintivamente, è
portatore di un’idea della politica che possiede una sua coerenza
interna.
L’occasione
per riflettere viene suggerita da una delle tante riforme “finte”
all’esame del Parlamento: la pubblica Amministrazione e, in
particolare, la dirigenza pubblica.
Il
«mood» è vecchio e, ogni volta che si affronta il problema, torna
in modo peggiorativo. In questi giorni, l’iniziativa viene
attribuita a un senatore Pd exdemocristiano, colto, anche lui, sulla
strada di Roma da una conversione renziana. Si tratta di Giorgio
Pagliari che si intesta la decrepita idea di garantire la cosiddetta
terzietà dei manager pubblici e la loro indipendenza dall’autorità
politica.
Evidentemente, questo signore, insieme al
premio Nobel politico Marianna Madia, non legge i giornali né –ma
questo è normale- nulla di ciò che nel mondo s’è scritto sul
ruolo della burocrazia e sui suoi rapporti con la politica.
Sarebbe
bastato prestare un po’ d’attenzione alla vicenda Lupi-Incalza
per constatare ciò che è ormai a conoscenza di tutti: dopo
Tangentopoli, la titolarità dei rapporti tra lo Stato e le imprese,
tra lo Stato e i cittadini, è passata dalla politica alla
burocrazia, cui, di fatto, competono le relazioni proprie e quelle
improprie, cioè corruttive.
La
terzietà dei manager, prima che una sciocchezza conclamata, è
un’illusione: chiunque occupi un ruolo di potere burocratico lo
gestisce nel modo più lucroso possibile per sé e per le proprie
relazioni politiche.
La
strada quindi è diversa: rendere trasparenti i rapporti tra le due
aree dello Stato, in modo che alla responsabilità politica siano
effettivamente attribuibili le decisioni e i comportamenti della
burocrazia. Non a caso, negli Stati Uniti vige uno «spoil system»
generale e, in Francia, dove la burocrazia ha un prestigio che noi
sognamo, la politica ha il dovere di governare e di controllare le
azioni di coloro cui sono attribuite funzioni operative.
Il
nuovo dirigente pubblico disegnato dalla Madia e da Pagliari è
vecchio e irrecuperabile a un processo di rilancio del Paese.
Il
manager pubblico considera i «file» di cui deve occuparsi come un
coltivatore diretto pensa al suo campo: vanno coltivati, gestiti,
utilizzati e tenuti in caldo per tutto il tempo possibile, giacché
«L’arretrato è potere» e la legge «si applica, ma per gli amici
si interpreta».
La
verità è che la burocrazia, questa burocrazia, e la dirigenza,
questa dirigenza, sono perdute e debbono essere abbandonate al loro
destino, magari con un prepensionamento.
Madia
e Pagliari non sanno, né possono sapere che quando un’azienda deve
cambiare, attivando una trasformazione di processi e di prodotti,
accantona il personale sin lì occupato nei sistemi e nei prodotti in
via di abbandono, e attiva «task forces» (nelle quali può essere
inserito, previa adeguata formazione, qualcuno dei ‘vecchi’
purché abbia ancora l’età per imparare) intorno alle quali si
costruisce la nuova azienda. Ed è questo il caso di
un’Amministrazione pubblica, nazionale, regionale, comunale nemica
dell’innovazione e incapace di fornire al cittadino un servizio
adeguato al terzo millennio.
Lo
so. Questo è pretendere troppo. Ma rimane la constatazione di
trovarci di fronte a un’ennesima riforma finta che cambierà
qualcosa per lasciare le questioni sostanziali com’erano nel 1948,
nel 1980 e ieri.
domenico cacopardo
domenico cacopardo