i profusi selfie di un premier vanitoso
di vincenzo cacopardo
Si sbagliano tutti coloro i quali pensano ancora che con la sola forza di un determinato pragmatismo e con la prosopopea sempre dimostrata dal sindaco d'Italia.. si potrebbe raggiungere un utile risultato.
di vincenzo cacopardo
Si sbagliano tutti coloro i quali pensano ancora che con la sola forza di un determinato pragmatismo e con la prosopopea sempre dimostrata dal sindaco d'Italia.. si potrebbe raggiungere un utile risultato.
La
questione non è proprio quella che: “in
fondo...a differenza di altri.. ci ha provato!”..come
molti hanno continuato a ripetere!
L'argomento politico si è sempre presentato delicato e sarebbe stato
necessario affrontarlo con molta più umiltà e maggiore deferenza
nei riguardi dei cittadini. Più sensibilità nei riguardi dei
principi stessi della democrazia..meno forzature
contrapposte...maggiore delicatezza nei riguardi dei principi di
egualità ed equità..meno appariscenza, insomma...meno selfie ed
abbracci e più impegno verso l'innovazione e le idee.
Non si
trattava solo di rimanere estraneo al rito stantio dei partiti del
passato, ma di operare con meno fretta e semplificazione, poiché la
logica del solo pragmatismo non potrà mai essere vincente, ma solo integrativa alle idee: Nel caso di Renzi..quelle poche idee
sembrano aver fatto acqua. E' più di un anno che il mio Forum
..anche attraverso il collaborativo scambio con il pensiero e le
analisi di Domenico Cacopardo, ha messo in serio dubbio l'operato fin
troppo arrogante e presuntuoso percorso dal giovane premier.
Dov'è si è
mai messa in evidenza quella sensibilità che doveva guidare la sua
figura con maggior modestia e con più impegno da vero statista nel
dialogo con gli altri Partiti? Tutto ciò che Renzi ha fatto è stato
per lo più suggerito dalle forze politiche ed economiche europee..
non dimostrando alcun vero rispetto per la cultura, il pensiero ed il
mondo imprenditoriale del nostro Paese. ..Si è adattato ad un
sistema globale senza il minimo sforzo di fornire un contributo di
cambiamento che avrebbe potuto rendere allo stesso sistema un barlume
di innovazione (la semplificazione non è innovazione)...Eppure siamo il Paese delle idee..siamo definiti i
più grandi creatori... dovremmo dettare concetti qualitativi eccellenti.. più che presunzione e pragmatismo.
Adesso che
siamo alla prova dei fatti saltano in evidenza le crepature di un processo di falso cambiamento da lui voluto ed imposto anche per
mancanza di altre figure politiche più capaci. Più che i
molti a sperarci ..sono stati in troppi costretti a fare affidamento
su una figura che si è mossa con gran capacità di comunicazione.. e
con una dose abbondante di “paraculismo” che ha finito anch'essa
con lo stancare. Strano che
Domenico non abbia intuito prima quanto avrebbe potuto nuocere alla politica
una personalità talmente ambiziosa quanto poco rispettosa di un
processo si cambiamento che avrebbe dovuto sostenersi con maggior
sensibilità: un finale che si intravede.. ma che ancora deve vedere un "verso" nel suo epilogo.
Non è
esponendosi con machiavellico pensiero che oggi si possono affrontare
le enormi questioni riguardanti la politica sociale del Paese, né
con la retorica sterile della rottamazione, ma forse con maggior
platonica visione verso le congetture, le idee e le analisi... Non
sempre può esservi un fine che giustifica i mezzi! Oggi
la politica tende a muoversi di frequente e con prepotenza, in questa
comune e semplificativa logica, mortificandosi nell‘uso
dei mezzi più disperati ed assurdi e Renzi ne rappresenta l'emblema.
Vincenzo
cacopardo
scrive Domenico Cacopardo su Italia Oggi
Molti ci avevano sperato: il politico giovane, innovatore, estraneo al rito stantio dei partiti -e del suo, il Pd, in particolare-, portatore di una visione pragmatica che avrebbe riavvicinato l’Italia alle nazioni più avanzate, era la persona che poteva, effettivamente, cambiare verso al nostro Paese.
Molti ci avevano sperato: il politico giovane, innovatore, estraneo al rito stantio dei partiti -e del suo, il Pd, in particolare-, portatore di una visione pragmatica che avrebbe riavvicinato l’Italia alle nazioni più avanzate, era la persona che poteva, effettivamente, cambiare verso al nostro Paese.
Anche la
cinica spregiudicatezza mostrata in varie circostanze, a partire da
«Stai tranquillom Enrico!», sembrava militare a favore di questo
giovanotto, ex-scout, proveniente dal vivaio delle sagrestie.
Certo,
sbagliava i riferimenti, per esempio La Pira, tutto il contrario di
quello che serve ora e qui, o Berlinguer o Moro, ma gli si perdonava
l’ignoranza della storia e dei fondamentali come la manifestazione
di un rinnovamento «tout-court», slegato dal passato e, perciò,
più libero nell’approccio alla contemporaneità.
Un sintomo
s’era subito manifestato, però, con la demagogica distribuzione di
80 euro ad alcune categorie di indigenti (non i più indigenti, per
il vero): una scelta inutile, per l’esiguità del beneficio, e
dannosa per il peso sulla finanza pubblica. Già, nonostante il
galantuomo Padoan, troppo galantuomo all’evidenza, la strada scelta
dal primo ministro archiviava una politica economica sparagnina e si
dirigeva verso l’aumento del deficit (e quindi del debito). Nei
limiti del 3% concessoci naturalmente, ma sull’osservanza reale
degli stessi, molti dubbi albergano nella testa degli esperti.
Altri
sintomi si sono manifestati in corso d’opera: il dilettantismo
internazionale, con un semestre europeo che, a dispetto delle
promesse mirabolanti, non poteva essere più deludente, il
dilettantismo governativo, con ministri inidonei a svolgere anche
l’incarico di amministratore di condominio, con «comis» scelti
nel giardino di casa, come la comandante dei vigili urbani di
Firenze, e il «city manager» di Reggio Emilia.
Però il
piglio era deciso e, su alcune questioni cruciali, come le riforme
istituzionali (monocameralismo sostanziale, riforma del titolo V,
legge elettorale), il «jobs act» o la scuola, intransigente, tanto
da accettare lo scontro con un pezzo del suo medesimo partito.
Le cose
andavano meno bene, anzi male, sul fronte della pubblica
Amministrazione con una finta riforma, e persino sulle misure di
rilancio, un pasticcio di idee con scarse possibilità di attuazione.
Sul fronte
morale (nel quale, la nomina a dirigente nella discussa azienda
paterna sembrava insignificante pagliuzza) Matteo Renzi era
altrettanto deciso: dimissionati il sottosegretario Gentile (Ncd) per
pressioni sul giornale L’ora della Calabria, il ministro De
Gerolamo (Ncd), tirata in ballo da intercettazioni tra estranei, non
indagata, e il ministro Lupi (Ncd), per rapporti non trasparenti con
l’imprenditore Perotti, non indagato.
Insomma, la
moglie di Cesare non deve essere nemmeno sfiorata dal sospetto.
Però, nel
suo partito, il rinnovamento si arrestava: le candidature alle
presidenze regionale erano riportabili al passato e ai legami con
l’antica nomenklatura, anche se tutti i soggetti (come del resto il
bersaniano presidente dell’Emilia-Romagna) erano renziani di
accatto o di rinforzo.
Ma sulla
questione morale, l’intransigenza si fermava di fronte al Pd, per
una scelta «À la carte».
In Sicilia,
nessuna reazione al caso Genovese, anche se il deputato arrestato
era il fondamentale cardine del renzismo isolano.
Poi Roma,
con Mafia capitale. Si nomina un commissario al partito, Matteo
Orfini e si decide di difendere il sindaco della capitale, Marino,
quello della Panda in divieto di sosta. Sino ai nostri giorni, quando
Mafia capitale si allarga coinvolgendo uomini del nuovo corso
(provenienti dal vecchio) eletti con Marino anche nella lista da lui
medesimo creata. Matteo Renzi, nel fine settimana, va al festival di
Repubblica, a Genova, e ribadisce: pulizia nel partito e a Roma, ma
Marino non si tocca.
Una
evidente sottovalutazione di quanto sta accadendo non solo nella
procura della Repubblica di Roma, ma in giro per l’Italia, dove la
pubblica opinione che l’ha premiato alle europee è indignata dalla
sua insensibilità sul fatto più eclatante della storia del
malaffare di questi anni.
A parte la
geometria variabile (la gente dell’Ncd trattata in modo ben diverso
da quella del Pd), risulta stupefacente il crollo improvviso del
«feeling» con una parte cospicua di italiani e la crisi della sua
straordinaria capacità comunicazionale.
Già, in
modo freudiano, mentre si annuncia il sostegno «usque ad finem» di
Marino, si dispongono gli stanziamenti per il Giubileo, somme ingenti
che saranno gestite dalla medesima amministrazione scossa nelle
fondamenta dallo scandalo.
Intanto,
le minoranze del Pd sono diventate carsiche: non si vedono, non si
sentono, non si ascoltano. Non sarà che, richiamandosi al vecchio
che resiste, esse hanno da temere dall’avanzata della legalità a
Roma? Perché Matteo Renzi non approfitta della situazione e regola i
conti con loro? Perché si trincera nella difesa dell’indifendibile,
lui come tanti predecessori, legati a un equilibrio partitico di cui
è parte il malaffare dalle Alpi al Lilibeo? Perché non chiarisce
l’entità del contributo versato dall’inquisito Buzzi alla cena
nella quale partecipava anche lui?
Ognuno ha
le sue risposte a questi vitali quesiti. Quello che è certo è che
«hic et nunc», Renzi ha perso il carisma del rinnovatore (e del
moralizzatore, se mai l’ha avuto).
Da oggi
avremo di fronte un ennesimo governo boccheggiante, incapace di
tracciare il solco insuperabile tra legalità e illegalità che il
Paese pretende come premessa indispensabile della sua ripresa morale,
politica ed economica. Un ennesimo governo di mezze figure, con un
«premier» troppo rapidamente trasformatosi nella caricatura di se
stesso.
Domenico
Cacopardo