Un vecchio
adagio, del tutto ignorato ai nostri giorni, diceva più o meno così:
«È meglio tacere e lasciare negli ascoltatori il dubbio, piuttosto
che parlare e dire sciocchezze.»
Basta
aprire un qualsiasi giornale di quelli che si ritengono attenti ad
alcuni personaggi o si propongono di promuoverli in vista di chissà
quali prospettive future per leggere ogni giorno un florilegio di
citazioni, il cui peso e il cui valore non vengono mai valutati prima
di andare in pagina.
Beneficiario
e vittima di un simile trattamento è Raffaele Cantone, commissario
anticorruzione, candidato a sostituire Roberto Saviano nel ruolo di
«guru»
tuttologo con una speciale tendenza a insegnare la morale e il
diritto (che, per Cantone a differenza di Saviano, è roba propria) a
tutti. In specie a coloro che rivestono significative responsabilità
o che sono chiamati a risolvere problemi particolarmente difficili.
Ci vengono
in mente due recenti esternazioni del commissario anticorruzione. La
prima riguarda i pubblici funzionari. Secondo il nostro «esperto»,
tra di essi ci possono essere persone oneste, ma non fanno carriera.
Una sciocchezza concettuale che diffama decine di persone dello Stato
che hanno svolto e svolgono compiti di vertice in modo inappuntabile,
senza cedere di un millimetro alle eventuali sirene del malaffare.
Purtroppo, il fatto che si tratti di un magistrato penale (aduso alla
autoreferenzialità) fuori ruolo influisce sulla sua capacità di
misurare le proprie parole («refrain
yourself») e lo spinge a
sparare sul mucchio.
Cantone,
commissario anticorruzione, faccia i nomi e non si comporti come
colui che, guardando dal buco della serratura una camera da letto,
ritenga che la vita sia solo fornicazione. Ci sono stati pubblici
funzionari che, per la loro dirittura morale e amministrativa, hanno
perso la vita per mano di mafiosi e delinquenti vari.
Fra
l’altro, una dichiarazione quale quella attribuitagli sui dirigenti
pubblici ne stimola l’ostilità in un momento in cui ci dovrebbe
essere la massima collaborazione tra di loro e il commissario. Un
commissario che, difficilmente, aggiusterà il tiro, viziato com’è
dall’essere protetto e coccolato dall’informazione. Un
atteggiamento accettabile, quando il giudice parla per propria
scienza e coscienza.
La seconda
uscita di Cantone riguarda il rapporto tra Milano e Roma.
Intendiamoci, personalmente ammiro Milano e i milanesi. Da Roma, me
ne sono andato nel 2005 per la crescente invivibilità della città,
per l’abbandono del centro-storico e il degrado costante di zone
cruciali, frutti avvelenati di un’amministrazione, quella di
Veltroni, attenta alle cose che gli facevano immagine, indifferente
ai fatti di tutti i giorni, quelli che rendono meno difficile la vita
dei cittadini.
Ma
formulare un paragone secco tra Milano e Roma, dichiarando che a Roma
non ci sono gli anticorpi di rifiuto e ostacolo della criminalità è
un’altra sciocchezza a ruota libera, che incide, almeno per me,
sull’opinione che m’ero fatta di Raffaele Cantone. Di sicuro si
considerava e si considera «troppo
demiurgo», «troppo
risolutore» della vicenda
corruzione nel contesto nazionale, a dispetto della sottovalutazione
del diritto amministrativo e del procedimento amministrativo, chiavi
queste per una prevenzione veramente risolutiva, e della
sopravvalutazione delle proprie funzioni e dell’onniscienza dei
propri collaboratori.
Su un punto
mi preme richiamarlo.
Una
sciocchezza pappagallescamente ripetuta da quel grande pensatore che
è il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, endocrinologo.
Si tratta
della demonizzazione del «massimo
ribasso», il sistema che
affida i lavori pubblici al migliore offerente cioè a colui che
offre il prezzo minore. Perché questo metodo funzioni occorre che si
verifichino una premessa e una condizione. Da quando, con la
regionalizzazione, lo Stato ha abolito il Genio civile e distrutto
gli uffici tecnici dell’amministrazione dei lavori pubblici, non si
elaborano più progetti esecutivi come si deve. Le progettazioni sono
approssimative e si ricorre troppo spesso all’appalto concorso o
all’offerta prezzi per sopperire alle carenze progettuali. Non è
una deficienza casuale né un destino cinico e baro. È una scelta
dolosa scientemente operata (dai due principali agenti del
procedimento, la politica e l’imprenditoria di rapina) per
provocare costosi aggiustamenti in corso d’opera, dai quali trarre
extrautili illeciti.
La
condizione per rendere il massimo ribasso praticabile e utile, è
imporre cauzioni integrali a copertura del valore dell’intera opera
da eseguire (così si fa nei «tender»
internazionali indetti da Paesi nei quali non si tollera il «bashish»
cioè la mazzetta). Cauzioni bancarie a prima chiamata
moralizzerebbero gli appalti e anche il sistema imprenditoriale,
giacché escluderebbero i soggetti che concorrono (e magari vincono
con ribassi demenziali) solo per poter poi «sistemare
le cose» con la costosa
protezione del politico di turno e l’acquiescenza di qualche
corruttibile funzionario.
Concetti
questi, di difficile comprensione per un endocrinologo, ma di sicuro
alla portata del dottor Raffaele Cantone.
Un vero
passo innanzi, quindi, sarebbe rappresentato dalla valutazione della
qualità delle progettazioni, non lasciandosi tirare per la
giacchetta delle urgenze, ma rispettando i tempi tecnici per la
definizione di progetti veramente esecutivi.
Nel clima
delle dichiarazioni a ruota libera, sembra trovarsi a proprio agio
l’esimio prefetto Francesco Paolo Tronca. Si tratta di un prefetto
di carriera prefettizia e quindi attrezzato dal punto di vista
amministrativo. Coopererà con un prefetto di provenienza Polizia,
come Franco Gabrielli che, sul Giubileo, potrà far valere competenze
specifiche.
Tralascio
le accuse rivolte a Tronca dall’Unità di Concita de Gregorio, mai
contestate da una querela, ma sulle quali sarebbe opportuna una sua
parola di chiarimento. Non voglio farmi influenzare da pregiudizi. Mi
faccio però influenzare dal pacco di luoghi comuni che Tronca ha
riversato su Roma e Milano.
Il modello
Milano, a mio modo di vedere e con riferimento all’Expo, si basa su
due circostanze precise: la presenza di un galantuomo come Giuliano
Pisapia e la collaborazione di una squadra di tecnici che, alla fine,
ha compiuto il miracolo. Il resto, da Paolo Glisenti in poi, e con
l’esclusione di quel grande manager che è Lucio Stanca, impedito
di operare, è meglio dimenticarlo: liti da cortile e ripicche
intorno alla guida dell’operazione. Per il resto, la città e i
milanesi, che godono di uno specialissimo «drive»,
hanno subito in misura rilevante i danni prodotti dalla corruzione
che ha colpito soprattutto l’istituto Regione, ma non ha
tralasciato, in passato e di recente, la sanità. E non sono stati
immuni dalle infiltrazioni mafiose, ‘ndranghetiste e camorriste:
basta chiedere in procura o in questura.
Roma,
da questo punto di vista, presenta una sola diversità importante: è
la sede dell’amministrazione statale e, come tale, meta di tutti
coloro che intendono ottenere qualcosa dal sistema. Ed è questo
l’elemento più inquinante, rispetto al quale non è possibile
organizzare alcuna civica risposta.
Ma Roma è
anche la sede di decine di istituzioni civiche, laiche e religiose,
che danno un esemplare contributo alla convivenza cittadina. Le più
recenti vicende hanno messo in rilievo un sistema corruttivo nato e
sviluppatosi intorno alla macchina comunale: i romani ne sono stati
vittime. Non complici.
A questo
punto, non è prevedibile che aria tirerà in Campidoglio
dall’insediamento di Tronca. C’è da sperare che, al di là delle
dichiarazione roboanti, il commissario si occupi di ripulire la
macchina municipale e di amministrare, ben sapendo che non bastano
sei mesi e un Giubileo in corso per il risanamento burocratico e lo
svolgimento di una normale campagna elettorale.
E,
comunque, prima di parlare e togliere ogni dubbio sulla propria
saggezza, è meglio per tutti riflettere, tacere e operare con
serietà.
Domenico
Cacopardo