23 dic 2014

IL BILANCIO DI UN PRESIDENTE DISCUSSO



Sul bilancio del quasi novennio del nostro presidente della Repubblica Domenico Cacopardo scrive: 

"Nei prossimi giorni, Giorgio Napolitano lascerà la carica di presidente della Repubblica. Gli occhi si appunteranno su Montecitorio, luogo del collegio elettorale (deputati, senatori, rappresentanti delle regioni e delle provincie autonome) che procederà alla elezione del successore.

È tempo per qualche considerazione conclusiva sul suo mandato, per la prima volta duplice, dato che il 20 aprile del 2013, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, è stato ricondotto al Quirinale.

Sembrerà banale ricordarlo, ma Napolitano viene dopo un presidente interventista e manovriero bel al di là dei limiti costituzionali come Oscar Luigi Scalfaro, e dopo un mediocre uomo di banca come Carlo Azeglio Ciampi. 
2006: lo stato della Patria è critico. Le elezioni appena svoltesi non hanno dato un vincitore certo, anche se Romano Prodi ha dichiarato di esserlo. L’instabilità è, quindi, la cifra specifica con cui inizia il mandato presidenziale. Caratterizzerà tutti gli otto anni e mezzo successivi.
Il governo Prodi cade per rapida consunzione del 2008. 
Nuove elezioni danno la maggioranza a Berlusconi, ma ben presto proprie personali incapacità e interventi anomali (un vero e proprio ultimatum di Trichet, presidente della Bce, controfirmato da Draghi, governatore della Banca d’Italia, una sorta di golpe delle autorità finanziarie) spengono la vita del suo governo. L’Italia è colpita dalla speculazione internazionale («spread» Italia-Germania oltre i 500 punti) e dallo sbandamento dei partiti, incapaci di convenire su una qualsiasi piattaforma difensiva. 
Napolitano, forse indotto da autorevoli suggerimenti (Angela Merkel?), nomina presidente del consiglio Mario Monti, un professore di economia, beneficiato da un’inattesa designazione a senatore a vita, alla testa di un governo tecnico. L’Italia è commissariata, visti i precedenti da euroburocrate del «premier». Infatti, nel giro di pochi mesi, firma il Fiscal Compact (l’accordo europeo che stringe i paesi in difficoltà in una camicia di ferro di rigore, la cui più evidente espressione è l’impegno di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni) e ottiene l’introduzione in Costituzione dell’obbligo di pareggio del bilancio. I partiti, senza bussola politica, approvano tutto.
Anche le nuove elezioni del 2013 si concludono senza una maggioranza definita. Qui, il ruolo del Quirinale è ancora più evidente: dopo alcuni maldestri tentativi di Bersani, emerge l’impossibilità di una maggioranza coerente. 
Napolitano promuove un accordo sinistra-destra e nomina presidente del consiglio Enrico Letta. Nasce un gabinetto debole e incerto, in cui le accertate qualità del primo ministro non riescono ad affermarsi, mentre tutte le sue indecisioni e incertezze pesano come macigni sul Paese.
In casa Pd, emerge un giovanissimo leader, Renzi, che, preso il partito, il 22 febbraio 2014 conquista la «premiership». Questi i tormenti degli ultimi otto anni. A essi Napolitano ha risposto con un interventismo ben oltre la Costituzione, ma ben dentro le emergenze della Nazione, cercando di scongiurare un ulteriore degrado, in fondo al quale c’è un baratro oscuro. Com’è naturale, molte voci critiche si sono levate in tante occasioni. Soprattutto riguardo alle interferenze sui nomi dei ministri. 

Oggi, però, alla vigilia di un difficile confronto parlamentare per l’elezione di un nuovo presidente, è meglio accantonarle. Se siamo ancora qui, vivi e vegeti, anche se variamente ammaccati, gran parte del merito va riconosciuto proprio a lui, a Giorgio Napolitano: non un figurante della Storia, ma un protagonista."
domenico cacopardo


Ho sempre difeso l'operato del nostro anziano Presidente e gli riconosco meriti, oltre che di pazienza, di un equilibrio non comune. E' vero che si sia trovato a dover fare i conti con una politica degenerativa e spesso insensibile alle funzioni spettanti, ma è anche vero che è stato costretto a sopperirvi attraverso manovre non comuni alle logiche che legano il compito di un capo dello Stato della nostra Nazione a doveri costituzionali oggi non facili da seguire...Ciò è stato dovuto ad un cambiamento che non ha ancora trovato libero sfogo nel percorso delle regole istituzionali. 

Sicuramente il nostro Presidente è riuscito a venirne fuori se pur condizionato da una presenza vincolante di una comunità europea sempre più presente nell'economia del nostro Paese e che ormai pare lasciare pochissimo spazio a manovre personali. Non possiamo tuttavia dimenticare quando...nel passato, non avendo la politica trovato alternative alla sua figura, il Presidente abbia dato la piena disponibilità al rinnovo del suo mandato a condizioni che si desse sfogo ad un'azione di rinnovamento efficace. Ma oggi la sua esigenza di abbandono sembra persino spinta da una visione politica generale che pare non avere certezze su un possibile cambiamento. 

Napolitato ha sempre sperato in una responsabilità diretta dei Partiti verso un rinnovamento guidato dal giovane premier Renzi.. indicando limiti e le condizioni persino temporali...ma le incertezze ogni giorno crescono..soprattutto quelle temporali! Ci sono state ragioni di opportunità politica da parte di Napolitano nell'aver aperto una strada larga al premier Renzi, ma anche motivi di preoccupazione per una certa condotta che lo stesso sindaco d'Italia ha continuato a dimostrare su alcune procedure frettolose ed irriguardose e sulle spregiudicata comunicazione ricca di tante promesse. Sono certo che il nostro Presidente si sia spesso sentito in grande disagio. 

Un protagonista di sicuro.. malgrado non abbia mai voluto esserlo , ma anche una figura che resterà nella storia come un Capo dello Stato assai discusso.

Non v'è dubbio che l'abbandono da parte del Capo dello Stato...porterà nel prossimo futuro cambiamenti di rotte e derive non facili che si aggiungeranno alle già disperate difficoltà del paese...Quali nuovi scenari si apriranno alla politica?
vincenzo cacopardo

20 dic 2014

La “forma mentis” ..che blocca l'innovazione.

di vincenzo cacopardo

Quello che riesce difficile da comprendere è la mancanza di una via d'uscita alla politica Renziana. Una politica che oggi si rivolge verso quella centralità.. perseverando su criteri e metodi appartenenti ormai ad un passato: La via del Premier appare, per certi versi, simile a quella che venne percorsa dalla vecchia DC. 

Quello che poi non è facile condividere è
l'abbandono di un pensiero che riesca a dar forza ad una "forma mentis" diversa attraverso la quale innovare il sistema istituzionale vecchio con riforme più appropriate. Il metodo di Renzi, con tutto il rispetto per la sua ambiziosa volontà, è  sempre stato quello di continuare a cavalcare gli stessi principi sui quali è crollata una società sotto il peso di una classe politica che in realtà continua a non rinnovare alcunchè...ed anche in questo caso.. non basteranno furbizia ed ambizione.. 



Il cugino Domenico Cacopardo ha scritto: “Il circuito perverso che vedeva il sindacato, la cooperazione (proprio quella cooperazione che mostra mostruose deviazioni di natura –sin qui note solo agli esperti- spingendosi ben oltre i limiti del codice penale) e il partito come le coerenti facce di uno stesso disegno politico di occupazione della società e del potere hanno perduto la loro battaglia, sin dal momento in cui è caduto il Muro di Berlino e il sistema internazionale di coperture ideologiche è terminato. Era inevitabile che accadesse anche in Italia ciò che è accaduto in Russia, in Polonia e in tutto il mondo exsovietico. Soprattutto dopo la creazione del partito del compromessino storico, il Pd, nel quale l’apparato excomunista ha perso in poco tempo, per consunzione, il proprio ruolo egemone.”

Domenico, già consigliere di Stato nelle precedenti repubbliche, sposta..così.. le colpe di una difficoltà di rinnovamento da parte di Renzi.. sui sindacati e su tutti coloro che, a parer suo, non condividono la sua politica determinata ed anche determinista...(oggi meglio identificati come gufi). “Poiché Renzi, con felice intuizione, s’è diretto verso la centralità politica e l’ha conquistata, gli eredi del comunismo non possono più svolgere alcun significativo ruolo politico. Debbono scegliere tra la nostalgica testimonianza e la resa alla socialdemocrazia europea, respinta tra la fine degli ’80 e i primi anni ’90. Le loro idee residuali, le loro indicazioni, se riuscissero a imporsi, ci condurrebbero nel giro di pochi mesi a Weimar, la repubblica tedesca dal cui disastro nacque il nazismo.”

Ma per il sottoscritto ..il problema non può più essere ridotto sulla semplice concezione dell’apparato excomunista e la perdita del proprio ruolo egemone.. nè si può, in considerazione del fatto che le ideologie hanno lasciato spazio a necessità logistiche diverse, continuare a parlare di socialdemocrazia o liberaldemocrazia, allo stesso modo con cui non si può accettare un certo populismo...e allora?..quale strada, se non quella innovativa di saper guardare oltre i confini di una mentalità ancora così chiusa e ristretta?

Pur consapevole dell'atteggiamento e riuscendo a comprendere ciò che intende Domenico riguardo ai sindacati, la si può anche pensare diversamente sul merito del mediocre lavoro fin qui svolto dal governo per la crescita economica e democratica del nostro Paese. Le ministre e ministri dell'attuale governo.. non fanno che ripetere mnemonicamente le stesse parole del Premier..ma non innovano alcunchè..in previsione di riforme tendenti solo a semplificare e non far funzionare il meccanismo in senso democratico .

Sentire parlare di intervento da parte di una figura politica che oggi mette in riga un sistema politico (con metodi tra l'altro assoluti..ai limiti di una concezione democratica) non può lasciare tranquilli tutti coloro i quali più democraticamente pensano che le responsabilità di un programma politico non può essere affidato ad un unica personalità: Il considerare che un'unica figura politica possa essere in grado di risolvere le molteplici problematiche esistenti equivale a ritenere tale figura come un Padreterno in terra...e la politica non ha certo bisogno di questo! 

La politica necessita di regole diverse...regole che possano servire al riscontro di una vera innovazione funzionale attraverso la partecipazione di tante personalità che attraverso lo scambio ed il dialogo, possano trovare riscontri più funzionali e non solo semplificativi. 

Considerare la governabilità in senso giusto.. come un punto d'incontro di un programma voluto dai cittadini..rinnovare il lavoro ed il fine funzionale dei Partiti..eliminare i conflitti perenni esistenti nella politica e nelle istituzioni..etc. Sono questi i temi delicati delle importanti riforme che non potranno mai risolversi con la prepotenza assoluta (seppur ricca di astuzia) di un'unica figura.

Purtroppo siamo ancora legati ad una “forma mentis” così limitata rispetto ad una visione più innovativa della cosa politica, per cui... il più astuto e comunicativamente preparato, anche se non ispirato dalle utili idee, finisce col prevalere.

La fortuna oggi non aiuta proprio gli audaci..soprattutto in tema politico, dove oltre ad una mentalità più aperta occorrono idee innovative, metodo e dialogo tra le parti. Con ciò non si vuole per niente apparire gufi (termine tra l'altro molto usato negli stadi e nel calcio).. né si pensa di essere prepotentemente a favore dei sindacati, ma si vuole semplicemente mettere in evidenza l'importanza di un cambiamento che non può più prescindere da una “forma mentis” integralmente difforme. 




18 dic 2014

L'analisi di Domenico Cacopardo sulla nuova performance di Benigni


Dopo il guitto che si mette in politica e fonda un partito, il 5 Stelle, ci doveva toccare il comico (Benigni) che, dopo essersi inventato dantista e costituzionalista, s’è dato alla teologia. Sempre onorando, come ogni giullare che si rispetti, il potere reale di riferimento ignaro che esso, purtroppo per lui, non esiste più.

Intendiamoci, non per colpa sua, ma di questa dirigenza Rai, sempre ripiegata su se stessa, incapace di rottamare le cariatidi che imperversano sui teleschermi e sui microfoni, e di innovare l’unico laboratorio (pubblico) che dovrebbe rispecchiare la società e, per essa e con essa, produrre cultura. 

Ci tocca rimpiangere i tempi di Ettore Bernabei, di Fabiano Fabiani e di Biagio Agnes, tutti democristianoni, tutti capaci di inventarsi ogni anno qualcosa di nuovo e di interessante, senza cadere in preclusioni ideologiche.

Oggi, invece, c’è una specie di paralisi mentale che impedisce ai capi attuali di vedere che così non va e che, anche in Rai, occorre cambiare verso e uomini. Che il collaudato ricovero di «quadretti» di partito, di figli e nipoti di exinfluenti personaggi della Prima e della Seconda Repubblica deve aprirsi alle professionalità emergenti, in fuga verso l’estero, per offrire loro una opportunità italiana.

In questo contesto nascono le «performances» di Roberto Benigni. 

Diventato personaggio «cult» per «La vita è bella», nella quale osa (colpo di genio) trattare in forma lieve la grande tragedia della «shoah», il comico (un altro «one shoot people», capace di sparare solo un solo colpo) che fu Johnny Stecchino diventa una specie di strapagata ancora di salvezza per gente a corto di idee.

La Divina Commedia, la Costituzione e il Decalogo sono stati l’occasione per esibizioni farcite della peggiore retorica, prive di alcun reale fondamento culturale e intrappolate da un buonismo d’accatto, alla Veltroni.

Senza ricordare l’affermazione «la nostra Costituzione è la più bella del mondo», la cui falsità era ben nota e già da tempo a tutti gli italiani, oltre che agli esperti, soffermiamoci brevemente su questo Decalogo. 

La cifra specifica del «recital» di Benigni è la mediocrità. Il ridondante esame di ogni comandamento non riesce a esprimere null’altro che luoghi comuni, e tra essi solo quelli capaci di vellicare il gusto di un pubblico di bocca buona. Non poteva mancare il riferimento alla donna, con l’attribuzione alla «costola» di un significato che mai ha avuto né nella patristica né nella teologia. La «costola» della Bibbia è la conferma di una visione maschilista, così radicata e diffusa da non consentire le escursioni verbali del nostro comico. E la «felicità» è un concetto tutt’altro che biblico, visto che la nascita dell’uomo è segnata dal peccato e dalla cacciata dall’Eden. E l’«amore», un sentimento cristiano difficilmente rintracciabile nel decalogo, nel quale occhieggia il Dio che obbliga Abramo a sacrificare Isacco.

C’è da dire che, probabilmente, Benigni, viziato da un premio Oscar, venerato come Garibaldi dal pubblico di mezza-sinistra che continua a immaginare gerarchie politiche, morali e sociali ormai in soffitta, ha perso strada facendo ogni umiltà e ispirazione (quelle vere non quelle fittizie, spesso richiamate nelle sue interminabili filippiche) necessarie per cercare e trovare la «logica» che lega il pensiero, per approfondire i temi di cui intende occuparsi e per evitare di parlarsi addosso come capita agli anziani, categoria alla quale non è anagraficamente iscritto, avendo appena 62 anni.

Se, alla fine, Matteo Renzi batterà un colpo rinnovando come si deve la Rai, potremmo rivedere Benigni sul piccolo schermo non nelle deludenti vesti del tuttologo moralista, ma in quelle più proprie e divertenti del comico professionista.
Domenico Cacopardo


17 dic 2014

Una nota al nuovo articolo di Domenico Cacopardo

Il ricorso frequente al coup de théâtre è nel Dna di Matteo Renzi ed è uno dei suoi maggiori limiti.

Ieri, ce ne ha forniti addirittura due.

Il primo è l’esumazione di Romano Prodi, proprio il giorno dopo avere seppellito, nell’Assemblea nazionale del Pd (che strano destino per il partito dei nemici del socialismo: avere assunto per il suo organo più rappresentativo il nome, sfortunato, che Craxi dette all’excomitato centrale del Psi) l’Ulivo, e ciò che ha rappresentato. Il giovane «premier» non è attento alle coerenze, che sembra consideri stupidi impacci da rottamati.

Si capisce il senso del colloquio di due ore nella sede istituzionale di Palazzo Chigi con l’esponente exdemocristiano, pronto a una rischiosa ricandidatura: in questa fase politica, sminare il terreno dai petardini di cui dispone la minoranza del suo partito e ciò che resta, ben poco, del partito di un sempre più spento Vendola, può essere utile. E poi, se Prodi cadrà lungo la corsa, nessuno potrà attribuirgliene la responsabilità, com’è accaduto nel 2013, quando il pattuglione dei deputati renziani lo impallinò senza pietà.

Osservato con attenzione da tutti i lati, l’incontro Renzi-Prodi sembra iscriversi nel lunghissimo elenco delle operazioni tattiche di cui il primo ministro si è reso cinico protagonista. E questa non è necessariamente una critica, giacché una dote non secondaria di un uomo di Stato è l’inesorabile freddezza tattica che deve fargli usare uomini e situazioni secondo immediata convenienza.

Il secondo «coup de théâtre» è l’annuncio, diramato in coppia con Giovanni Malagò (il presidente del Coni di cui si può rammentare il morbido, inconcludente atteggiamento tenuto nella sgradevole nomina di Tavecchio alla testa della Figc, un’operazione di esemplare opacità), della candidatura italiana alle Olimpiadi del 2014. Certo, un espediente propagandistico di un certo effetto in un Paese depresso come il nostro, nel quale gente come Camusso, Landini e Barbagallo si impegna per una stupida stagnazione (come è apparso evidente quando il «pensatore» Landini, segretario della Fiom, si è battuto contro l’Alta velocità Torino-Lione), e per il quale occorre una rimessa in moto, possibilmente celere.

È qualcosa di diverso da un espediente? Difficile crederlo. Nonostante le distrazioni e le ignoranze storiche, Matteo Renzi non può non sapere quali problemi ha prodotto la preparazione delle Olimpiadi in molte delle nazioni che hanno «beneficiato» della designazione. Dalla Grecia al Brasile il colpo alle finanze pubbliche è stato di dimensioni letali, tanto letali da essere all’origine del disastro degli amici di Atene. E non può non sapere che il partito del no, quel partito che impedì, per esempio, l’Expò di Venezia, con il recupero che avrebbe comportato per la città lagunare, è ramificato e forte dall’Alpe alle Piramidi, e si avvale del supporto della massa di disadattati che anima le nostre piazze in ogni occasione e di tanti vegliardi non ancora rottamati che imperversano su giornali e riviste «trendy». Un mix che può animare le polemiche dei prossimi mesi.

E non c’è dubbio che quest’idea a Berlino, a Bruxelles e a Francoforte sarà giudicata come l’ennesima manifestazione dell’incapacità italiana di comportarsi secondo le regole, di occuparsi, quindi, del bilancio dello Stato e del suo debito per condurre entrambi sulla strada delle virtù comunitarie.

Anche qui sembrano prevalere le ragioni della piccola propaganda su quelle della politica maggiore.

Certo, «tutto fa brodo» pensa il «premier» dimenticando che c’è brodo e acqua pazza e che chiunque può accorgersene.

Sullo sfondo, nel medesimo giorno di questi eventi mediatici, si conferma il disastro «marò», con la reiezione da parte della Corte suprema indiana delle ultime richieste di allentamento del regime di detenzione e di liberà provvisoria.

Qui casca l’asino: l’inesistente Mogherini ha passato la mano al solido Gentiloni, ma l’apertura di una procedura internazionale contro l’India rimane nel libro dei sogni. 
domenico cacopardo



Non casca l'asino ..ma l' intero Paese..
"Sentirsi dire che l'Italia non può fare le Olimpiadi, frustra le speranze dei nostri  concittadini" Queste le parole dette alla Camera dal nostro premier nel corso delle comunicazioni sul Consiglio europeo: "Se c'è chi ruba va in galera, si persegue e si va avanti senza ricorrere alla rinuncia. Se c'è chi ruba, bisogna avere il coraggio di mandarlo in galera e di alzare le pene per evitare i patteggiamenti e di insistere su una idea che chi fa politica prova a proporre un sogno per il Paese"
Renzi continua a proporre sogni come vivessimo in una favola. Tutto ciò.. in un momento in cui il Paese soffre nell'antitesi angosciosa di continue corruzioni ed il fragile sostegno di una economia debolissima e fuori controllo, non può destare alcuna tranquillità. Continuare ad allettare i cittadini con promesse di medaglie d'oro entra nella specifica comunicazione dei sogni e nella ambizione senza limiti del nostro sindaco d'Italia. 

Se per Matteo Salvini rappresenta un'autentica follia, per i deputati pentastellati costituisce materia per nuovi attacchi alla figura del Premier.

Naturalmente non poteva mancare il sostegno del sindaco di Roma, Ignazio Marino il quale, ormai coperto fino al collo dallo scandalo che ha coinvolto la sua amministrazione, sfrutta la proposta contestando maldestramente un certo pessimismo:".Certo per il sindaco di Roma la proposta potrebbe rappresentare una ripartenza: “In questo momento se facessimo un giro per la città ascolteremmo tante frasi di approvazione, di incitamento, di andare avanti e fare pulizia". Un conto è rinunciare a un'occasione perché si pensa di non poter far fronte agli investimenti, un'altra perché si teme la corruzione: questo non può essere un alibi per rinunciare".”

In questo quadro, quello che rimane incomprensibile è il fatto di non curarsi minimamente delle recenti esperienze dei Paesi come la Grecia ed il Brasile, che con la loro posizione in favore di queste enormi spese fuori controllo, ha notevolmente peggiorato la propria situazione economica portandola al baratro.

Se poi consideriamo lo stato in cui è ridotto il nostro Paese dagli effetti naturali dei rischi idrogeologici ed i terremoti, non verrebbe nemmeno voglia di discutere su quali dovrebbero essere le principali spese da affrontare, prima di esporsi alla dichiarazioni di proposte avventurose ed azzardate. Il voler apparire forti in uno stato di debolezza assoluta e di continuo rischio, oltre che ridicolo.. appare persino pericoloso.

Se l'ambizione e la megalomania devono vincere su una realtà che mette in evidenza un evidente stato di necessità primaria a beneficio della sicurezza del nostro Paese, vuol dire che meritiamo veramente di finire nel profondo abisso di quella troika rappresentata dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale.

Qui non casca l'asino, ma un intero Paese....... 
vincenzo cacopardo








14 dic 2014

Una chiosa sul nuovo articolo di Domenico Cacopardo

"La determinata visione di una economia internazionale europea costringe le regole degli Stati aderenti. Con il continuo controllo sul debito e le direttive sulla stabilità dei Paesi della comunità, si condiziona a prescindere ogni percorso economico dei singoli paesi aderenti. Difficilmente, oggi, che un Paese come il nostro, potrebbe dare sfogo ad una economia più brillante in termini di investimenti e di conseguente economia reale!
 Un pensiero spontaneo.. quindi.. potrebbe essere quello di non riuscire a capire perché mai ci si deve adeguare ad un simile percorso di sofferenza trascurando l'essenziale crescita di una società, la cui sopravvivenza dovrebbe basarsi in un’economia effettiva di sviluppo. Restando fermi nei parametri della rigida visione dell’economia odierna internazionale, si persevera nel drastico problema di un Paese strangolato da un pesante debito pubblico, senza il quale, si potrebbe uscire usando gli 85 miliardi, pagati in interessi, per far crescere l' economia. Se pagare il debito, in via di principio, è anche necessario..e se dovessimo continuare a dar conto a tale logica…il nostro bel Paese, non potendo crescere, non avrebbe più alcuna speranza nemmeno di pagarlo! 
Con questo articolo..Domenico Cacopardo sottolinea l'importanza di un governo come il nostro che non può più sottrarsi ad un impegno in tal senso anche a dispetto dei bei propositi di Draghi "
vincenzo cacopardo

«…la convinzione cieca e ottusa che al mondo non potesse esserci nulla di più bello e perfetto della scienza, della musica, della poesia e della lingua tedesche, dei giardinetti, dei water, del cielo, della birra e degli edifici tedeschi…» (Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka).

Intorno a questa follia collettiva nacque la Prima guerra mondiale, si sviluppò il nazismo con le stragi di cui fu protagonista, si è consolidata un’idea d’Europa che ci sta conducendo al disastro collettivo, come dimostra l’aggravarsi della tragedia greca e la sua capacità di trascinare nel baratro paesi non secondari come l’Italia e la Francia. Intorno a questa follia collettiva, Angela Merkel s’è fatta interprete della volontà di germanizzare gli europei, trovando complici compiacenti anche da noi. Diciamocelo subito: nella storia del mondo, i debiti dei grandi stati si sono dissolti con le guerre e le conseguenti inflazioni. L’Europa è un’opportunità nuova e vedremo se funzionerà o se cadrà nella paralisi provocata dall’assoluta opposizione dei tedeschi, ossessionati dal timore di dover coprire le dissipazioni altrui.

Siamo in dirittura d’arrivo per lo «show down» più serio e drammatico della storia dell’Unione europea. 

Si tratta della battaglia, già in corso, intorno alla Bce e alla funzione che può e deve svolgere per portare la Comunità fuori dalla crisi, senza penalizzazioni per coloro che arrancano nel gruppo di coda, ma con concrete possibilità di recupero.

Mentre le aste di questi ultimi tempi sono state molto deludenti, si avvicina sempre più il giorno in cui la Bce deciderà di emettere o di non emettere i Qe («Quantitave easing»), in concreto di procedere all’acquisto di titoli degli stati membri nella misura finale di 1000 miliardi di euro, operabile anche per «tranches».

Non si tratta di un fatto tecnico-finanziario, un mero supporto ai paesi che arrancano mediante l’immissione di una consistente liquidità, tale da rimettere in moto un misurato e benefico processo inflazionistico.

Si tratta di una decisione politica, di cui si conosce la principale conseguenza: un impegno di 1000 miliardi della Bce verso gli stati membri è un passo irreversibile sulla strada dell’integrazione europea. Per un semplice fatto: dopo di essa, diventerà molto più difficile per tutti, in primis la Germania e gli euroburocrati minacciare e realizzare una dissoluzione dell’eurozona, senza che una porzione del debito della Bce non finisca nelle tasche dei cittadini del Nord-Europa.

Certo, è una rappresentazione molto approssimata di quanto potrebbe accadere, ma non è dubitabile che la battaglia contro i Qe è una battaglia contro l’impegno solidale dell’Europa sul tema del rilancio dell’economia di tutti gli stati a prescindere dalla quantità e dal valore delle riforme imposta da Bruxelles.

Su questo terreno occorre battersi, con gli strumenti della diplomazia e delle relazioni bilaterali, tra le quali si iscrive l’incontro italo-tedesco voluto da Napolitano e celebratosi in settimana a Torino.

È sbagliato, in questo momento, battere in continuazione il ferro della flessibilità: in realtà l’Italia domanda un allentamento del vincolo di bilancio. Con il debito pubblico che ci ritroviamo, l’allargamento del deficit è una ricetta impraticabile. Insisterci è controproducente. 

I segnali che vengono dalla Grecia confermano in qualche modo le iniziali parole di Grossman. Non solo, ma le truppe assoldate dai tedeschi in giro per l’Europa e insediate a Bruxelles, sono peggio degli originali tedeschi e producono operazioni assurde e autolesionistiche come quelle prospettate al governo ellenico: sul finire del primo anno con avanzo primario, il nuovo giro di vite imposto dalla Troika spingerà la Nazione amica nell’abisso, con la possibilità di tirarsi dietro nel gorgo della dissoluzione, l’intera comunità.
La cosa ci riguarda da vicino. Il governo deve occuparsene senza indugio: dopo la Grecia, toccherebbe a noi. A dispetto dei bei propositi di Draghi e delle belle prospettive dei Qe.
domenico Cacopardo

9 dic 2014

Leader e leadership..la sottile utile differenza

    di vincenzo cacopardo
Se oggi si affronta questo tema è proprio per mettere in evidenza l'errore dei tanti che ancora pensano di poter procedere con questa particolare mentalità: il presupposto di identificarsi nella figura di Leader di un nuovo Partito o Movimento in forza del fatto di ritenere un'organizzazione politica come una sorta di azienda privata..non potrà mai essere efficace nel tempo. Sono ancora in tanti a non accorgersi della naturale contraddittorietà insita in questo modo di affrontare la questione. Oggi.. questo è un argomento molto discusso e la stessa politica delle figure, malgrado il perseverare, dovrà mettere fine ad ogni forma di esaltazione buona solo a costruire miti (una politica con lo scopo del proliferare di proprie egoistiche opportunità) di sicuro non utile alla definizione di una vera democrazia. Non esistendo una verità assoluta sulle soluzioni.. un'organizzazione politica dovrebbe occuparsi principalmente di dirimere e risolvere giorno per giorno attraverso il dialogo e la ricerca col contributo di uno scambio interno. Se è vero che occorre una guida.. è anche vero che leader non si nasce ma si diventa...ed è proprio il modo in cui si diventa a convincere assai meno. Costruire una leaderschip è molto più difficile, ma rende più resistente e compatta l'opera di ogni Partito o Movimento che nasce per ascoltare ed accrescere il dialogo sotto una spinta paritaria di ricerca.  


Una delle tematiche più interessanti di questi anni è quella della posizione dei leaders e cioè su quelle figure a capo di un partito politico, di un'organizzazione, di un'impresa che rappresentando le figure più in vista e più rappresentative e che dovrebbero quindi orientare ogni indirizzo.: Il leader è colui che ha dei seguaci, senza seguaci non ci può essere un leader.. Una concezione naturale che dovrebbe farci porre non poche domande.


L'analisi che più ci interessa è quella dei “leaders politici” in quanto è sicuramente legata allo studio di questo Forum. 
In modo differente... un processo di una leadership consiste in una interazione di coloro che in una struttura occupano la posizione più elevata col resto del gruppo. Una delle caratteristiche fondamentali dei membri di un gruppo di stato elevato è quella di proporre idee ed attività nello stesso gruppo... utilizzando in questo modo dei mezzi per influenzare i membri e modificare il loro comportamento. Ma, dal momento che l'influenza sociale è comunque sempre un processo reciproco, quello che caratterizza il leader è il fatto che può sempre influenzare gli altri nel gruppo più di quanto siano influenzati loro stessi.

Questa considerazione di carattere oggettivo, pur non definendosi del tutto, spinge ad un ulteriore esame sulla sottile differenza tra una strada delineata da una leadership (ossia..non priva di interazione e scambievolezza) e quella imposta da un unica figura di leader che orienta in un unico indirizzo (in modo più assoluto e determinato). 

La determinazione di una guida su un tema di carattere amministrativo potrebbe essere accettata poiché servirebbe a riempire quel vuoto di risolutezza necessario per la definizione e la messa in opera di un progetto. Al contrario..se la natura del progetto esige uno scambio dialettico costruito sulle idee e su motivazioni inerenti la politica (vedasi il lavoro spettante ai Partiti), il dialogo dovrebbe restare fondamentale, poiché quella fermezza potrebbe dirimersi in un determinismo eccessivo... tagliando il fondamentale dibattito interno.

Il mio personale indirizzo su questo tema è risaputo..e cioè che il pensiero politico che dovrebbe nascere nella casa di un Partito in contatto con le esigenze dei cittadini, non potrà mai essere sostenuto da un'unica figura predominante, ma dovrebbe essere il risultato di un dialogo costruito da una serie di figure che unite formeranno una vera e propria leaderschip. ..Insomma un Partito non dovrebbe mai ammettere una figura predominante, né... tale figura..come oggi accade.. potrà mai assumere il doppio ruolo di segretario di un Partito e Premier di una Nazione.

La questione che oggi si pone è proprio quella di credere che unendo la forza di un Partito col comando di un esecutivo del Paese, si riescono a definire meglio i risultati di una governabilità...e questo accade anche perchè si considera la governabilità l'unico scopo necessario e non un fine costruttivo....Ancora peggio, poi, se una figura assume la caratteristica di leader assoluto il cui compito è doppiamente avvalorato dalle cariche (un argomento che attinge da una diversa concezione che appartiene ad altri Paesi, ma che non può collimare con la storia e la cultura politica della nostra Nazione) 

L'errore di non separare i due poteri e distinguerli per ruoli e competenze, non aiuta la funzione della politica e spinge ad esaltare le figure a danno di una efficienza necessaria per la crescita.  

Un commento alle analisi del consigliere Domenico Cacopardo



Se, rinunciando all’abitudine di parlare prima di pensare, Matteo Renzi decidesse di riflettere sul caso Roma (in grave allargamento) si renderebbe conto che c’è una totale insostenibilità del quadro politico esistente e che, quindi, occorre azzerare la giunta comunale e il governo della regione Lazio, strettamente legata alla situazione romana.

Corruzione e criminalità costituiscono un tumore virulento che deve essere asportato senza indugi. Le cellule infette debbono essere rimosse e una decisa chemioterapia deve fare pulizia di quelle vicine, siano o no portatrici del male.

Questo dovrebbe saperlo bene l’attuale sindaco di Roma che è medico.

Su di lui, da qualche anno, ci portiamo dietro una domanda che non ha avuto alcuna plausibile risposta, che non sia vuota retorica di circostanza: «Perché il professor Ignazio Marino si è dimesso dall’incarico di professore di chirurgia presso il Jefferson Medical College di Philadelphia ottenuto nel 2002, per candidarsi con il Pd nelle elezioni del 2006?» Il quesito non concerne il privato di Marino, ma la sua pubblica funzione: infatti, l’idea infantile di un patriottico richiamo al dovere di servire il popolo non è convincente.

Sul punto e su tutto il resto, Matteo Renzi dovrà ottenere risposte precise per sé e per la pubblica opinione​. E comunque, rimossa ogni opacità​, non potrà mantenere la fiducia del suo partito al sindaco di Roma, le cui difficoltà amministrative si erano di recente arricchite del caso «Panda», dai cui contorni emergono dispregio per le regole e ristrettezza di portafoglio, un caso imbarazzante che, in Germania o nel Regno Unito avrebbe imposto immediate dimissioni. Oggi, la situazione ha assunto un dimensione inquietante anche per la donazione elettorale di 30.000 euro da parte di Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa 29 giugno, destinataria di cospicui finanziamenti comunali (e oltre). Quindi, sul punto, i casi sono due: -o Marino e i suoi uomini non sapevano chi fosse Buzzi e che cosa facesse la sua cooperativa e in tal caso sono una manica di imbecilli incapaci di gestire il «found raising» di una campagna elettorale; o lo sapevano benissimo e, accettando la donazione, si ripromettevano di ricambiare il beneficio ricevuto. 

In entrambe le ipotesi, Marino non può continuare a sedere sulla poltrona di sindaco di Roma, dopo essersi seduto in quella di senatore della Repubblica. L’annunciata rotazione dei dirigenti comunali è una vera sciocchezza: se tra di essi ci sono dei ladroni il cambiamento di dipartimento o assessorato non ne cambierà le abitudini. E sciocca è l’idea di nominare subito un assessore alla trasparenza. L’unica strada per ottenere chiarezza è quella che abbiamo già invocato: si dispongano accertamenti sugli stati patrimoniali dei dirigenti nel 2000 e nel 2013. 

Emergerebbero matematicamente i casi di investimenti non giustificati dalle retribuzioni dichiarate. 

La palla è a Renzi. Deve, infatti, incaricare subito l’Ispettorato generale di Finanza del ministero dell’economia, l’organo tecnico più qualificato che ci sia nell’apparato statale di effettuare un’analisi delle attività amministrative (suggerisco a Renzi e a Cantone di prendere nota. È, infatti, possibile che non ne conoscano l’esistenza) del comune, della provincia e della regione Lazio per le presidenze che si sono succedute negli ultimi dieci anni almeno. Sia per le gestioni Veltroni e Alemanno che per quelle Gasbarra e Zingaretti (provincia) e Marrazzo («tanto nomini»), Montino, Polverini e Zingaretti medesimo (regione).

Prima che le illazioni divengano una montagna, è nell’interesse di queste persone, presidenti dei tre enti negli ultimi dieci anni, che un organo puntuto e altamente qualificato come l’Igf effettui tutte le verifiche del caso, soprattutto nelle aree (merceologiche?) relative all’attività della banda criminale che spadroneggiava in Campidoglio, a Palazzo Valentini (provincia), forse alla Pisana (regione) e nelle sedi dei partiti. Fra l’altro, non possono essere ignorate le voci romane sull’esistenza di un ben più vasto e lucroso giro corruttivo intorno alle aziende municipalizzate e regionali. 

Infine, caro Matteo Renzi, la presunzione di innocenza vale nelle aule di tribunale non negli uffici politici che si occupano di cosa pubblica. Anche Micaela Campana dovrebbe abbandonare la segreteria del Pd nella quale lei, incautamente, l’ha inserita. E dimettersi dalla Camera dei deputati, nella quale è entrata in quota Bersani.

Sappia, caro Matteo Renzi che lei ha gli strumenti legali per conoscere tutto quello che serve sui suoi collaboratori, anche i più vicini, e sul gruppo dirigente del suo partito. Li usi. 

Sappia che questo tornante della politica (Milano, Venezia, Roma, l’Eni) è grave quanto e più di Tangentopoli. Se lei non è capace o non ha la forza di affrontarlo con decisione realizzando il rinnovamento di cui c’è immediata necessità, nel giro di pochi mesi lei sarà definitivamente affossato. I «tarallucci e vino» non servono. Servirebbe Robespierre. Noi ci accontenteremmo di un giovane «premier» con il coraggio di fare piazza pulita dovunque è necessario o soltanto utile. 

Questo il Paese si aspetta. Non chiacchiere da bar di Rignano sull’Arno, tipo «Che schifo!» Lei è il capo del governo, non altro, vivaddio!

La collera di una Nazione nel disastro economico e sociale merita il rispetto delle regole basilari della democrazia e della Costituzione: chi ha realizzato o mancato di impedire il malgoverno deve essere mandato a casa. 
domenico cacopardo




La analisi di Domenico non smentisce le sue capacità di approfondimento su ogni tema inerente il malcostume e la corruzione. 
Domenico scrive che “Marino e i suoi uomini non sapevano chi fosse Buzzi e che cosa facesse la sua cooperativa e in tal caso sono una manica di imbecilli incapaci di gestire il «found raising» di una campagna elettorale; o lo sapevano benissimo e, accettando la donazione, si ripromettevano di ricambiare il beneficio ricevuto”..Tra le due ipotesi io propendo per la prima..ovvero per la incapacità totale di chi si è seduto in una poltrona difficile per la gestione della capitale non avendo alcuna esperienza nel merito, ma sopratutto... una mancanza totale di capacità politico amministrativa. 

Chi ha assistito all'ascesa politica di Marino non può porsi quella domanda che Domenico sottolinea con chiarezza: «Perché il professor Ignazio Marino si è dimesso dall’incarico di professore di chirurgia presso il Jefferson Medical College di Philadelphia ottenuto nel 2002, per candidarsi con il Pd nelle elezioni del 2006?» In effetti..non può mai essere convincente la sua voglia di prodigarsi in un lavoro politico ostentato come una vera missione. 

La deludente attività svolta fino adesso conferma la sua mediocrità. Ricordiamo lo strafalcione (offerto come immagine di uomo del cambiamento) della inverosimile Cerimonia in Comune del primo cittadino di Roma che ha arbitrariamente inserito nel registro capitolino le 16 coppie che si sono sposate all'estero. Al di là di ogni posizione ideologica rispettabile, l'azione del sindaco Marino è apparsa davvero avventurosa.. oltre che imbarazzante.

Da esperto consigliere di Stato Domenico suggerisce a Renzi, dopo gli ultimi osceni fatti che hanno riguardato la capitale, di incaricare subito l’Ispettorato generale di Finanza del ministero dell’economia, l’organo tecnico più qualificato che ci sia nell’apparato statale di effettuare un’analisi delle attività amministrative. In questa triste storia vengono messe in dubbio tutte le vecchie gestioni dei vari sindaci e dei presidenti di regione.

Per quanto riguarda le domande che Domenico pone al premier Renzi..vedendolo ancora come “l'uomo con il coraggio di fare piazza pulita dovunque è necessario o soltanto utile”, vorrei far notare che già da tempo il Premier nella sostanza, ha dimostrato una ipocrisia fuori dal comune, non essendosi occupato seriamente del tema della corruzione e dei conflitti esistenti in seno alle istituzioni, non operando con le necessarie formule preventive. Oltre alla simulazione ha dimostrato una strana abilità nel fuggire da certi temi che appartengono sicuramente ed in modo prioritario alle regole basilari della democrazia e della Costituzione.
Vincenzo cacopardo

8 dic 2014

La posta di Paolo Speciale

L'inesauribile immoralità della politica

Ancora una volta la cronaca giudiziaria domina l'attenzione della pubblica opinione, ponendo in secondo piano la pur sconvolgente ed orribile attuale cronaca nera.

Quando la realtà supera ogni immaginazione, perfino quella dei “nequissimi homines” dell'impero romano, si fondono tra loro - in un miscuglio – sozzura presente anche in molte altre realtà locali - politici, faccendieri,estorsori e delinquenti comuni, ognuno con un ruolo ben definito, in uno dei settori più vulnerabili ad opera del malaffare: quello dell'assistenza ai più deboli (le ruberie sui finanziamenti ai centri per gli immigrati) e, purtroppo, non solo. Il danno morale è abnorme e sconvolgente, perché di fatto distrugge – anche e soprattutto a livello internazionale, dove sino ad oggi la Merkel ci punta il dito contro – l'unica connotazione che sinora ci ha nobilmente distinto e che ha fatto di noi la componente europea che si ispira alla filosofia del “poveri ma belli e buoni”. Sono riusciti a macchiare anche la nobile virtù della caritatevole accoglienza. 

Abbiamo detto macchiare, non togliere di mezzo, grazie a Dio. Ed anche questo scandalo diventa fonte dell'insopportabile,prevedibile, ennesima appropriazione indebita sia del concetto che dello status di esclusiva invocata detenzione della pubblica moralità, in un risibile quanto tragico tentativo di ciascun ex leader in astinenza di popolarità di riprendere qualche voto. Attribuire adesso un provvidenziale ruolo catartico a nuove anticipate elezioni rende ancora più in-credibile la dignità-perduta – di una classe politica in cui diventa sempre più difficile trovare i non affetti dalla corruttela.
Roma caput mundi: anche se in fondo constatiamo che, nel bene e nel male, non siamo unici o primi nel mondo. Almeno in questo.

Orbene allora, perché non pensare aduna riedizione della politica come ad una atipica “professione passionale” a tempo determinato – e quindi in regime di assoluta precarietà - riservata soltanto a coloro che ottengano il necessario consenso elettorale previa adeguata formazione con tanto di verifiche docenziali? Non è pura teoria od illusorio idealismo: quello della pubblica rappresentanza è una delle attività più antiche del mondo perché nasce dalla necessità dell'uomo di relazionarsi con i propri simili. Ed essere destinatario di più o meno plebiscitari consensi risponde pienamente ai princìpi fondanti di ogni sistema democratico evoluto. Tuttavia perché confinare ad attività prettamente convegnistica o di mero approfondimento teorico-filosofico la cosiddetta “formazione politica”? Prescindendo, ovviamente, dai ben noti percorsi universitari, riteniamo utile la – pubblica -statalizzazione di un percorso di studi mirato a correttamente configurare il ruolo di chi è chiamato a rappresentare –pro-tempore – il rappresentato (cittadino), rendendolo adeguatamente edotto in via preventiva sui rischi – di umana,fallibile, storica natura – che attengono all'esercizio di tale compito circa le potenziali e diffuse deviazioni dal giusto operare in favore della collettività.

Una sorta di vaccino, insomma, prevenendo così, anziché cercando di curare, un cancro che disonora la pura scienza politica non banalizzata od impropriamente disprezzata come da troppo tempo avviene.
Paolo Speciale



7 dic 2014

Ruoli appropriati.. ed improprie regie

scrive Domenico Cacopardo

"È inutile nasconderlo: siamo di fronte a due trasformazioni materiali della Costituzione che risultano in competizione fra loro. In passato gli esperti le avrebbero definite «surrettizie», con riferimento al loro imporsi «de facto», senza un disegno dichiarato e approvato dal Parlamento.

Per un verso c’è l’accentuazione (incostituzionale) del carattere «presidenziale» della presidenza della Repubblica, giunta con Napolitano (dopo averlo fatto con Scalfaro) ad assumere tratti che l’avvicinano alla figura della presidenza francese.

Non è solo la scelta di ben tre presidenti del consiglio (ormai ridotti a primi ministri di nomina e tutela presidenziale), ma soprattutto la crescente e determinante influenza del presidente della Repubblica nella individuazione dei ministri (vedi la singolare, inspiegata opposizione di Napolitano alla nomina del magistrato Gratteri a ministro della giustizia), e dei vertici della amministrazione (civile, militare, e in parte giudiziaria). 

L’altra trasformazione consiste nella tendenza di Renzi verso la democrazia plebiscitaria. Forse proprio perché privo di una “legittimazione” elettorale diretta, ha inteso assumere il ruolo di protagonista unico e solitario della scena governativa (contornato da nullità senza autonomia, salvo qualche eccezione), che si collega direttamente all’elettorato tramite l’uso martellante dei media. Il momento che attraversiamo è permanentemente drammatico, il guado del fiume dell’inefficienza, della corruzione e della conservazione politica e sindacale non è nemmeno iniziato: abbiamo appena messo il piede in acqua e ci siamo resi conto che la corrente è gelida e tempestosa. Costringere un Parlamento sostanzialmente delegittimato dalla Corte costituzionale (che ha annullato la legge con la quale è stata celebrata la sua elezione) ad accantonare il lavoro legislativo per occuparsi di un nuovo presidente della Repubblica.. sembra quasi il capriccio senile di un padre della Patria indispettito dalle difficoltà di vedere realizzato il suo proprio disegno di riforme.

Ma tant’è. Fra poche settimane la Repubblica ballerà sull’orlo del precipizio, tra le parole festose e incoscienti del «premier» e la ricerca di un ruolo purchessia dei gruppi e dei groppuscoli creatisi in un anno e mezzo di anarchia parlamentare. 
Un Gentiloni. Un Franceschini. Una Finocchiaro. Presidenti di sistema, più che protagonisti. Non c’è altro da inventarci. 

Se Renzi lo capirà, avremo fatto un vero passo in avanti." 

Domenico Cacopardo




Non so se in realtà si tratti solo del fatto che Renzi lo capisca o no.. e se verranno fatti veri passi in avanti in tal senso... 
Il carattere «presidenziale» della Repubblica, sottolineato da Domenico circa l'assunzione di un ruolo forte promosso dalla figura di Napolitano, pone sicuramente delle domande che non potrebbero sottacersi. Renzi sembra aver già affrontato il tema di un sistema semipresidenzialista, non escludendo il fatto che si possa affrontare l'argomento, ma a condizione che si esamini prima la riforma del Senato.
Il sindaco d'Italia capisce che il tema del presidenzialismo è amato a destra più che a sinistra e che all'interno del suo stesso Partito.. ciò.. potrebbe far nascere ulteriori contrasti per il fatto che si possa offrire troppo spazio alla costruzione di figure sempre più dispotiche. Una paura già contrastata dai i padri costituenti di quella che doveva rappresentare una repubblica parlamentare. Ma con la realtà attuale...non v'è dubbio...che ogni timore in proposito potrebbe vedersi in modo diverso anche per il fatto che in altre democrazie occidentali...si attuano simili sistemi.

Ma perchè una proposta come questa... esposta dallo stesso Berlusconi...sulla nomina diretta di un presidente della Repubblica... deve per forza dare stura ad un percorso semipresidenziale? Perchè mai un presidente eletto direttamente da un popolo.. non potrebbe tenere gli stessi poteri limitati come quelli odierni, operando in più come garante di un sistema elettorale? Chi ci impone che non si possa far funzionare il nostro sistema istituzionale attraverso una maggiore garanzia da parte dell'operato di una presidenza della Repubblica?

Nominare un presidente del consiglio attraverso una elezione... è cosa ben diversa e sovverte il fine di una vera garanzia, poiché, in una Repubblica parlamentare, i poteri di un primo ministro finiscono con l'essere più assoluti e rischiano di prevaricare su quelli di una assemblea parlamentare.

Una domanda quindi nasce spontanea e potrebbe anche risultare ripetitiva se posta dal sottoscritto: Perchè mai il nostro Paese quando affronta simili riforme, non guarda in casa propria.. nel senso di studiare e definire un modello più adatto e funzionale?

Se si vuole una nomina diretta del Presidente della nostra Repubblica... ben venga. Potrebbe essere una vera garanzia per i cittadini! Ma non è detto che la figura debba per forza avere poteri vicini a quelli governativi e che ciò debba portarci direttamente ad un presidenzialismo.
....Insomma, perchè dobbiamo legare una elezione diretta del Capo dello Stato ad un esecutivo... e non propriamente ad una più sicura e garantita formazione delle Camere politiche?
vincenzo cacopardo