Si è passati dalle chiacchiere al primo vero e sostanziale «show down» sulla questione «madre» di tutte le riforme, l’art. 18 dello Statuto dei lavori che prevede il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa.
Merito di Ichino e Sacconi, due veri esperti che affondano le loro radici culturali e politiche nel bel mezzo della prima Repubblica e, tuttavia, protagonisti di quella che sarà la prima vera modernizzazione del mercato del lavoro.
Già, l’art. 18, approvato nel pieno di una stagione industriale non ancora toccata dai segni della crisi, aveva una ragione politica precisa. Qual era o poteva essere la causa di un licenziamento, a parte la discriminazione? E quale una giusta causa? Il punto era ed è proprio questo. La giusta causa non poteva essere che lo scarso rendimento e qualche mancanza disciplinare. Sfido chiunque a provare (anche con testimonianze orali) qualcosa del genere. Quindi, era la garanzia che l’azienda –che non licenzia i lavoratori solerti e capaci- non licenziasse chi esercitava attività politiche e sindacali nella fabbrica. In sostanza, una tutela contro il licenziamento di comunisti (considerati i nemici e sabotatori del capitale) e sindacalisti della stessa area.
Ora che i comunisti non ci sono più, che il sindacato, anche la Cgil, rappresenta soprattutto pensionati, ora che la crisi trasferisce il potere dai Comitati di base all’impresa, l’art. 18 è diventato un archeologico residuo di una stagione morta e sepolta. Anche se, dal suo inserimento nello Statuto dei lavoratori, questo articolo ha avuto sovente, troppo sovente, un’applicazione giudiziaria fondamentalista, che non aveva alcun riguardo alle condizioni e alle esigenze aziendali.
L’art. 18 è la norma cui si appellò Michele Santoro per ottenere per via giudiziaria il proprio reintegro nella Rai, nel medesimo ruolo e con la medesima retribuzione di prima.
Alla fine, il «premier» chiacchierone dalle promesse facili, si è trovato davanti al primo vero e sostanziale bivio: riformare o no il mercato del lavoro a partire dall’unica norma che lo tiene bloccato.
Ha scelto di riformare e, come d’incanto, si è ritrovata contro la coalizione che da trentacinque anni si oppone a qualsiasi modernizzazione del Paese. Sullo stesso versante le anziane «vedove della Repubblica», capeggiate da Stefano Rodotà, a seguire, la Cgil (la gentile Camusso, capo dei resti dell’armata sindacale, dichiara che, più o meno «Renzi è come la Tatcher». Non si rende conto, la poveretta, che in questo modo fa il miglior complimento possibile allo scout fiorentino. E che la prosperità dell’Inghilterra è fondata proprio sul rigoroso risanamento tatcheriano) e alcuni settori dell’exPci, capeggiati da Pierluigi Bersani (e le sue esternazioni di questi giorni rendono l’idea di quali guai avrebbe portato all’Italia un suo governo) e dal grande pensatore Civati, settori della magistratura, pronta a presentare il conto di qualsiasi iniziativa sgradita al partito dei Pm e le aree giustizialiste (il giustizialismo è malattia infantile della conservazione). Tutto iniziò sul finire degli anni ’70, contro Craxi e le sue idee di governabilità e di repubblica funzionante. E proseguì, trovando il terreno più fertile mai incontrato, con Berlusconi.
Oggi, più o meno, sono gli stessi. Vedono svanire il loro potere di interdizione e di condizionamento del Paese. Vedono svanire le loro rendite di posizione. Si vedono costretti a nuotare nel vasto e pericoloso mare della competitività.
Basterebbe questa riforma (il contratto a tutele crescenti) a caratterizzare come riformista un governo. Aspettiamo di vedere le nuove norme che saranno emanate in forma di decreto delegato, mentre oggi è in discussione la legge di delega. Ma, a questo punto, siamo confortati da un po’ di fiducia.
Diceva Talleyrand che in politica contano le parole. In qualche modo, i toni e le parole innovativi di Matteo Renzi l’hanno costretto a iniziare a fare le cose che aveva promesso.
Se proseguirà su questa strada, l’Italia solleverà il capo e riprenderà la marcia
Non so se adesso si faccia davvero sul serio come crede Domenico Cacopardo....sta di fatto che tutta questa storia dell'articolo 18 sembra estremamente ingrandita rispetto ai problemi del lavoro esistenti.
Ha ragione Domenico quando esprime il suo pensiero circa una giusta causa e ponendola come “scarso rendimento e qualche mancanza disciplinare”... quindi, “la garanzia affinchè un’azienda che non licenzia i lavoratori solerti e capaci... non licenziasse chi esercitava attività politiche e sindacali nella fabbrica”.
Sappiamo però che.. nel contesto odierno.. non è facile valutare il rapporto dei dipendenti di un'azienda in simile modo...Tutto ciò che afferma in questo articolo il consigliere Cacopardo è perciò giusto..ma rimane sempre ancorato ad un rapporto di lavoro costruito nel tempo. Un rapporto che potrà forse aiutare nell'investimento di queste aziende in cui si applica l'articolo 18 ...ma non certamente nella nuova crescita innovativa di cui il Paese ha bisogno... il quale necessita proprio di nuovo lavoro.. più che di regole sul lavoro.
Insomma... il vero problema di un Paese come il nostro..non può essere solo il rapporto di lavoro...poichè è proprio il lavoro che manca! Credo che se le aziende oggi licenziano.. è soprattutto per la mancanza delle commesse e di una produzione che penalizza quantitativamente i fatturati. ..Il problema sta nel fatto che siamo ancorati ad una visione industriale che deve cambiare nei termini e nella stessa tipologia della produzione...un sistema industriale che non può più pensare di entrare in concorrenza con altri Paesi il cui costo del lavoro è estremamente più basso: il nostro Paese deve investire attraverso nuove intraprese sul principio inimitabile della qualità e dell'innovazione.. qualità alta ed innovazione particolare.. che possano meglio metterlo in concorrenza con altri.
Meno importerà quindi se vi sarà o no un articolo 18 nel futuro...poichè il vero problema sta nell'inventarsi nuove ed innovative produzioni.
In questa logica non sembra apprezzabile il lavoro svolto fin qui dal governo Renzi che, preoccupandosi fin troppo delle regole tra il lavoratore e le aziende...pare trascurare quello più importante di spingere ed incoraggiare nuove iniziative... attraverso il credito e le opportune regole della fiscalità...
vincenzo cacopardo
vincenzo cacopardo