Che la Costituzione sia
spesso usata per imbrogliare gli italiani non sorprende, ormai, più di tanto.
A cominciare dalla
premiata (troppo) compagnia di giro che fa capo a Stefano Rodotà e a Gustavo
Zagrebelsky, che ogni giorno si riempie la bocca delle meraviglie della
Costituzione, dimenticandone le contraddizioni, l’impronta statalista, voluta
da democristiani e comunisti, per finire con i seguaci del comico Grillo, che,
mentre dichiarano di difenderla, palesemente ne violano l’art. 49 (il Movimento
5Stelle non ha statuto democratico ed è di proprietà di 3 persone, Grillo, il
nipote e il commercialista).
Oggi, finalmente,
qualcuno si accorge che il referendum del 1993, nel quale il 90,30% dei votanti
si espresse contro il finanziamento pubblico dei partiti, è stato aggirato con
le leggi 10 dicembre 1993, n. 515, 2 gennaio 1997, n. 2 e 6 luglio 2012, n. 96.
La procura regionale Lazio della Corte dei conti ha infatti prospettato al tribunale
l’esigenza che la questione sia sottoposta alla Corte costituzionale, nutrendo
molti e motivati dubbi sulla legittimità del sistema.
La prima di queste
leggi, all’art. 9, ribadisce, pochi mesi dopo il referendum, il diritto dei
partiti al rimborso elettorale (governo Ciampi nel ’93, in piena Tangentopoli);
la seconda abbandona la vecchia terminologia e affronta il finanziamento
pubblico, disciplinando i contributi privati da Irpef(la foglia di fico), ma
stabilendo un cospicuo intervento dello Stato sotto l’ipocrita formula del
rimborso; la legge 6 luglio 2012, n. 96, infine, riduce l’importo della
contribuzione statale.
Deve essere ora
approvata dal Senato la nuova legge che abolisce il finanziamento con un
decalage di due anni, introdotto nella speranza che la maggioranza che emergerà
nel 2015 possa reintrodurlo (questa è un’illazione, certo, ma, visti i
precedenti …) e inserisce la certificazione dei bilanci dei partiti. Manca del
tutto l’attuazione dell’art. 49. Se questo aspetto non viene definito, il
malcostume non può che continuare.
Del resto, mentre il
passato più remoto è stato approfondito nel contesto di Mani pulite, nella
seconda Repubblica, a parte le vicende dei singoli, il campo della corruzione
politica è tutto da arare. Sono completamente da scrivere pagine di chiarimento
su clamorose vicende dal caso Monte dei Paschi di Siena, il più grande scandalo
bancario della storia d’Italia, le cui connessioni politiche (c’è qualcuno che
può credere che si sia trattato di una vicenda ristretta a pochi individui
senza la copertura del padrone della città, il Pd e l’exPci?), sembrano
seppellite nei meandri di piazza del Campo, al caso Parmalat, il cui titolare
Callisto Tanzi era stato coccolato dalla corrente di Base della Dc e protetto
da un sistema bancario fortemente legato alla fazione stessa, a quelli più
piccoli e ancora da scoperchiare. E, al riguardo, si parla molto della Cassa di
risparmio di Spoleto, mattone importante del potere umbro. Per il vero ci
sarebbe da spiegare come e perché il servizio ispettivo della Banca d’Italia
non si sia mai accorto di nulla.
Mario Monti, nella
propria indipendenza, ha promosso, segno che non c’erano dubbi sul suo
precedente operato, la titolare del servizio, Anna Maria Tarantola, alla
presidenza della Rai, dove opera, come si può vedere, in modo incisivo e
determinante.
Ci sono voluti vent’anni
perché la procura della Corte dei conti decidesse di intervenire. Ora tocca
alla Corte stessa. Se farà ciò che è giusto, per la Corte costituzionale,
nonostante una maggioranza politicamente orientata, sarà difficile eludere il
problema e, al massimo nel 2015, dovremmo avere una pronuncia di illegittimità.
Se qualche altra procura
fosse parimenti solerte, potrebbe avviarsi anche il procedimento sull’elusione
del referendum sulla privatizzazione della Rai e potremmo assistere a una
decisione della Corte costituzionale anche in questa materia.
Vivaddio, la
magistratura supplisce la politica, rivendica diritto di vita e di morte sugli
uomini politici, si occupi anche dei presupposti, delle premesse del malcostume
e del rispetto della volontà degli italiani!
È evidente che la
normativa in materia di finanziamento pubblico aveva vari punti deboli. Il
primo, naturalmente, era ed è la mancata attuazione del referendum. Il secondo
era il modo in base al quale venivano erogati i finanziamenti:
autocertificazioni. Chi poteva fidarsi delle autocertificazioni dei
parlamentari e dei partiti? Nessuno, tranne i lor signori medesimi che, alla
Camera e al Senato, approvavano i rendiconti e rendevano esigibili i rimborsi.
Il terzo punto debole è il ribaltamento del sistema sui consigli regionali,
provinciali, comunali e, dove ci sono, circoscrizionali. Talché l’ultimo dei
componenti dell’ultimo dei consigli non solo riteneva e ritiene giusto dichiarare
che l’acquisto delle sue mutande è da rimborsare dallo Stato, ma pretende(va)
il diritto di rifiutare qualsiasi controllo. La sua firma e quella del suo
capogruppo certificavano che le spese erano connesse all’attività politica.
L’assenza di controlli
esterni, però, era legittima, secondo le leggi vigenti, solo per i parlamentari
e quindi, dobbiamo rinunciare a chiedere loro i danni: e, nel prossimo futuro,
aspetteremo il testo finale della legge per capire come funzionerà la
certificazione.
La giustizia, in ogni
caso, s’è mossa, ma con incerto destino finale. Infatti, c’è chi sostiene –e
non del tutto a torto- che quando i quattrini arrivano nelle casse dei partiti
(associazioni non riconosciute) perdono il carattere pubblico e diventano spendibili
secondo i regolamenti delle medesime associazioni.
Questo deriva -lo
ripetiamo perché è il nodo del problema- dalla mancata attuazione dell’art. 49
della Costituzione con una legge che definisca i caratteri minimali e
sostanziali d’uno statuto democratico dei partiti.
Riuscirà Matteo Renzi a
realizzare la riforma che aspettiamo? Non c’è che da dubitare
e, con sano scetticismo, sperare.