L'OTTIMISMO DEL CAMBIAMENTO
di domenico cacopardo
di domenico cacopardo
«E pur si muove!» disse Galileo Galileo, di fronte al Tribunale dell’inquisizione, al termine della rinuncia all’eliocentrismo, a conferma, non raccolta dai clerici parrucconi che lo giudicavano, che la terra ruota intorno al sole.
«E pur si muove», possiamo sostenere oggi, con riferimento all’Italia, alla sua situazione politica ed economica.
Non è notte e, quindi, non tutti i gatti sono bigi. Certo di gatti bigi ce ne sono in giro e tanti. Ma qualche gatto bianco o rosso o grigio si vede bene, nel mezzo delle strade o sui marciapiedi più frequentati.
Sono manager, imprenditori, dipendenti pubblici, insegnanti, ricercatori, artigiani che, nonostante i legacci in cui sono avvolti riescono ad andare avanti e a produrre quel di più che caratterizzò, un tempo tutta la società italiana e che ora contraddistingue una minoranza.
Non è il caso di andare alla ricerca delle cause storiche, anche se, nell’attuale situazione, possono bene identificarsi gli irreversibili danni prodotti dalla stagione del ’68 e degli anni ’70.
Tra i gatti bianchi, si può serenamente individuare Matteo Renzi.
Lo possiamo ben dire, non avendogli risparmiato critiche puntuali su tutto ciò che non andava e non va nella sua personalistica gestione del potere. La verità vera, però, è che il giovanotto dalla parlantina sciolta ha messo in moto la Nazione «politica», quel mondo a sé stante, costituito dalle migliaia di professionisti della politica che ha infestato e infesta Roma, le regioni, le exprovincie nella nuova versione, i comuni e le oltre 8.000 società pubbliche che sprecano i soldi dei contribuenti dall’Alpi a Lilibeo.
Una società politica parassitaria, avvinta alle strutture esistenti e incapace di immaginare il percorso necessario per recidere i legami che ci impediscono di essere quelli che fummo, protagonisti di almeno due miracoli economici.
La società politica del no: Notav, Noponte, Norigassificatore, Notermovalorizzatore e via dicendo. Un No, dietro il quale si celano interessi pelosi che aspettano, per svanire, congrui benefici da chi può dispensarli.
Se si approfondisce, dietro a ogni No, c’è anche un gruppo sociale che spera di trarre utili concreti dal suo No, a spese della comunità nazionale.
Certo, è difficile essere ottimisti nell’Italia dei nostri giorni. Eppure, l’ottimismo di cui parliamo non è un confuso sentimento, è una ragionata fiducia nella nostra capacità di esprimere ciò che sappiamo fare nei campi in cui esistiamo.
Da questo punto di vista, Renzi è stato meno salutare, per suoi limiti, di quanto avrebbe potuto essere.
Ma ora siamo al dunque, al discrimine tra un prima e un dopo. Il prima scadrà lunedì, nello «show down» alla direzione del Pd, tra i riformatori del «job act» e dell’art. 18, e coloro che succubi del peso della Cgil e del vecchio che permane, si oppongono.
Se Renzi rifiuterà qualsiasi gattopardesco compromesso e vincerà, prima in via Sant’Andrea delle Fratte (sede del Pd) e, indi, in Senato, entreremo nel «dopo», nella stagione –pur contraddittoria- delle riforme che servono, prima e più urgente quella della giustizia, ancora più attuale dopo l’incredibile chiamata di Giorgio Napolitano a testimoniare sulla trattativa Stato-Mafia.
Infatti non è solo l’«attualità e non rinviabilità dei problemi», la sussistenza di questo «nodo essenziale … per ridare competitività all'economia» e un «funzionamento è largamente insoddisfacente», tutte parole del presidente alla cerimonia di saluto del Csm uscente.
È questione di ristabilimento di corretti rapporti tra poteri dello Stato, da tempo compromessi per un mondo politico colpevole o tremebondo, spesso colpevole e tremebondo. E la restituzione del «servizio giustizia» alle sue ragioni etiche e costituzionali con l’abbandono delle usuali gestioni burocratiche che ci pongono in coda in ogni classifica di settore e consentono l’allargamento delle ipotesi processuali, come nel caso della chiamata di Napolitano a Palermo.
Un magistrato del Consiglio di Stato, anni fa, di fronte all’eliminazione dell’arretrato da parte della 1^ sezione, presieduta da Alfonso Quaranta, ebbe a dirmi, a mo’ di critica: «Un grave errore. L’arretrato è potere.»
Insomma, non per Palermo, ma in genere, la perpetuazione all’infinito del giudice processante e del giudice accusante, nel rimirar, compiaciuti, i propri ombelichi.
«Usque ad finem».