Ancora una volta Domenico indica con puntualità l'inspiegabile contraddizione relativa alle riforme. La teoria dei tagli lineari è sempre stata inutile oltre che riduttiva e tipica di chi lavora per semplificare, ma non per rendere il sistema più semplice (differenza non di poco conto). Soprattutto per il Mezzoggiorno del Paese, tale metodo, rimane penalizzante.
Per quanto riguarda il termine "in house providing", (come giustamente espone Domenico) viene indicata l’ipotesi in cui un committente pubblico, derogando al principio di carattere generale dell’evidenza pubblica, in luogo di procedere all’affidamento all’esterno di determinate prestazioni, provvede in proprio all’esecuzione delle stesse attribuendo l’appalto o il servizi di cui trattatasi ad altra entità giuridica di diritto pubblico mediante il sistema di un affidamento diretto ossia senza gara. Ma sappiamo che negli affidamenti in house non vi può essere il coinvolgimento degli operatori economici nell’esercizio dell’attività della Pubblica Amministrazione, per cui è chiaro che le regole sulla concorrenza sugli appalti pubblici, non vengono messi in rilievo. Questo è un modello organizzativo in cui una pubblica amministrazione provvede da sé al perseguimento degli scopi pubblici. Una sorta di auto-organizzazione che chiaramente non risulta tanto compatibile con una riforma che dall'altro lato deve tenere conto di una spending review oculata ed equilibrata.
Non so se le argomentazioni esposte a fine articolo da Domenico Cacopardo sono in realtà le vere ragioni e cioè... se veramente quei centri definiti parassitari appartenenti ad una vecchia repubblica, impediscono ad un governo determinato e deciso come quello del sindaco d'Italia, di proseguire verso una spending review che possa migliorare i dati della contabilità nazionale ed introdurre un po’ di moralità nel sistema degli appalti. Ma una cosa è certa: il tempo è passato ed ancora, dopo il piano Cottarelli , nulla sembra muoversi in proposito ed in senso chiaro.
vincenzo cacopardo
C’è una
sorta di inspiegabile antinomia tra le riforme che si annunciano e il
silenzio sulla «spending review», seppellita, dopo Cottarelli,
sulle scrivanie del duo Perotti e Gutgeld, consiglieri non retribuiti
di Renzi. Questa del lavoro a titolo gratuito è una trovata di moda
di questi tempi e contraddice principi morali, pratici e funzionali
(visto che se non sei pagato, puoi fare ciò che ritieni meglio).
La
«spending review» è, in parole povere, il taglio delle spese dello
Stato, delle regioni e dei comuni. In una spesa complessiva di circa
830 miliardi di euro l’anno, ci dovrebbe essere ampio spazio per
tagli non più lineari, ma indirizzati alle innumerevoli fonti di
spreco e di dissipazione. Per esempio le migliaia (9000?) società
pubbliche partecipate dai tre soggetti istituzionali di cui sopra, in
gran parte deficitarie, quasi tutti create in frode alla legge.
Perché in frode alla legge? Perché con la riforma della legge
comunale e provinciale Bassanini è stato consentita la costituzione
di società cui affidare l’attuazione di particolari compiti della
pubblica amministrazione. Le cosiddette «inhouse». Si tratta di
delegare a un soggetto esterno di proprietà dell’amministrazione
incaricata, l’esecuzione di funzioni proprie della stessa. C’è
da chiedersi come mai questa «gabola» abbia avuto tanto successo.
Lo spieghiamo: 1)consente al sindaco, al presidente della regione, al
ministro di associare nell’impresa un privato, possibilmente amico,
attraverso una procedura «aggiustabile»; 2)autorizza il sindaco, il
presidente etc. ad affidare alla società così formata, per esempio,
la realizzazione di un certo tipo di opere pubbliche. E qui il
ragionamento si fa chiaro: poiché questo soggetto ha natura
privatistica, può non applicare la normativa europea e nazionale
sugli appalti e affidare all’amico di turno progettazione,
direzione lavori e tutto quanto riguarda l’esecuzione dell’opera.
Alcuni, più raffinati, incaricano la società in questione di
trovare un «general contractor» e quindi, frappongono tra se stessi
e il malaffare due sbarramenti. Certo, si sa che la Corte di
cassazione e il Consiglio di Stato hanno escluso la natura privata di
questo genere di attività e disposto l’applicazione della
normativa europea e nazionale.
Ma nel
comune di «Oltredisotto» non lo sanno, lo dimenticano, lo aggirano,
continuando a fare ciò che da oltre un decennio fanno. E, se nessuno
ricorre, abbondante acqua arriva all’orto dell’amministratore.
Se torniamo
al governo Renzi e alla «spending review» è facile chiedersi il
perché di questa inerzia rispetto a un fenomeno che andrebbe rimosso
per migliorare i dati della contabilità nazionale e per introdurre
un po’ di moralità nel sistema degli appalti.
C’è una
sola ragionevole spiegazione: finché sarà in carica questo
Parlamento espressione della vecchia seconda Repubblica, se il
governo attaccasse i centri di spesa parassitari, ben più forti
(politicamente) delle categorie organizzate, in poche ore perderebbe
l’appoggio della sua maggioranza, composta da gente che è
espressione del sistema.
Solo
col nuovo Parlamento, tagliato il cordone ombelicale con i gruppi
sociali che controllano il vecchio, il governo, se vorrà restituire
al Paese la voglia di correre, potrà incamminarsi sulla pericolosa,
ma vitale strada dell’effettiva «spending review».
Domenico
Cacopardo